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Con lo spacchettamento rischio «disarmonia»

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Con lo spacchettamento rischio «disarmonia»

  • –Francesco Clementi

Con il rigetto da parte del Tribunale di Milano del ricorso presentato il 27 ottobre dai professori Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, e da Barbara Randazzo, entrambi dell’Università di Milano, anche l’ultimo ricorso pendente di fronte ai giudici contro il quesito referendario, al voto del 4 dicembre, viene a conclusione; dopo il rigetto di quello depositato dagli autori del ricorso che ottenne la pronuncia d’incostituzionalità del cosiddetto Porcellum da parte della Corte costituzionale e, poi, del rigetto dell’istanza al Consiglio di Stato di sospensiva urgente del referendum, presentata dal Comitato per il No, dopo la dichiarazione di inammissibilità per difetto di giurisdizione del ricorso presentato contro il quesito referendario, il 20 ottobre, al Tar del Lazio.

Insomma, con il rigetto del ricorso Onida-Randazzo, si esclude la “via giudiziaria” contro il quesito referendario, in quanto si conferma con chiarezza che la logica del referendum costituzionale, ex articolo 138, non è la stessa di quella prevista per il referendum abrogativo, ex articolo 75. E che le differenze tra i due referendum - non a caso, né per caso - restano. Perché, come sottolinea il giudice di Milano, «la sottoposizione articolo per articolo in separato quesito referendario potrebbe, in ipotesi, portare ad una paralizzante disarticolazione del testo costituzionale riformato»; così come sarebbe non poco difficile «individuare e definire giuridicamente il concetto di “omogeneità” in materia costituzionale». Infatti, continua il giudice, ciò sarebbe evidentemente «non scindibile in sede di valutazione dal concetto di interdipendenza costituzionale», posto che il testo di riforma è, appunto, un tutt’uno, pensato in modo coerente e unitario; e votato in questo caso addirittura due volte in più dal Parlamento, oltre le quattro obbligatoriamente previste dall’articolo 138 della Costituzione.

Così, il rischio di «una disarmonia costituzionale – come sottolinea il giudice - per effetto della separazione “imposta” con isolamento di ogni singola materia dal contesto istituzionale in cui deve andare per forza ad inserirsi», mostra la realtà: ossia che distinguere non si può, se non lo decide in primis il Parlamento, perché ogni testo – a maggior ragione se di rango costituzionale – ha una sua omogenea concatenazione logico-giuridica prima che politica, espressione di una scelta non casuale del Parlamento.

Per questo “spacchettare” il quesito non si può, se non lo ha deciso il Parlamento. Perché, come ha sottolineato già nel 2000 la Corte costituzionale nella sentenza 496, di fronte alle leggi costituzionali «il popolo interviene (…) rispetto ad una volontà parlamentare di revisione già perfetta». Altrimenti si rischierebbe - ex post - di mettere la sovranità espressa dal voto parlamentare contro quella espressa dal voto popolare. E questo, sì davvero, non si può fare.

.@ClementiF

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