Roma
«Abbiamo rimesso in moto il Paese e fermato l’ecatombe dei posti lavoro». Matteo Renzi arriva un po’ in ritardo, e se ne scusa, alla conferenza stampa per i «mille giorni» del suo governo, quarto per longevità dopo Craxi e i due di Berlusconi. È stanco e senza voce, il premier, dopo giorni da «globetrotter» in giro per l’Italia per tentare di convincere i tanti indecisi ad andare a votare il 4 dicembre in favore della riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo e riordina le competenze tra Stato e Regioni. Solo ieri sera, dopo la mattinata a Berlino per l’ultimo saluto di Barack Obama ai leader europei, Renzi ha infilato la partecipazione a Otto e mezzo di Lilly Gruber e un’iniziativa a Bari. In quel Sud che sembra schierato in prevalenza per il No. E anche oggi e domani si batterà il tasto del Sud: svariate tappe tra Basilicata Campania e Puglia, «vendendo cara la pelle fino all’ultimo». Perché tutto in qualche modo inizia e finisce con il voto referendario, e se dovesse vincere il No si interromperebbe un cammino di governo che Renzi illustra come virtuoso, a cominciare dai dati Istat relativi al Pil (che nei suoi mille giorni è cresciuto dell’1,6%) e all’occupazione (più 656mila posti di lavoro, di cui 487mila stabili; tasso di disoccupazione generale calato dell’1,1% e tasso di disoccupazione giovanile del 5,9%). «Anche se certo non ci basta», aggiunge.
Il Jobs Act, a dispetto di tutte le polemiche a sinistra, ha funzionato: «La ritengo la legge che ha inciso di più sulla realtà». E Renzi rivendica anche l’importanza dell’operazione 80 euro in busta paga per chi guadagna meno di 1.500 euro: «La più grande opera di redistribuzione mai fatta per il ceto medio, e la riprova che è stata una scelta giusta è il dato sui consumi delle famiglie, cresciuto del 3%». E poi l’abbassamento della pressione fiscale tra Imu Tasi Ires e tasse agricole. Qualche cosa che non è andata nel verso giusto naturalmente c’è, come la Buona Scuola: «Come abbiamo fatto, mettendo 3 miliardi nella scuola dopo anni di tagli, a far arrabbiare tutti è un mistero... Evidentemente qualcosa non ha funzionato». Questa volta la bandiera della Ue c’è alle spalle del premier, come sottolinea lui stesso ironicamente. Ma non può non percepirsi una certa aria di mestizia, di rassegnazione, nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi. «Questo governo è nato per fare le riforme costituzionali, le abbiamo fatte e ora decideranno i cittadini. Nostro compito era anche portare a casa la ripartenza economica, che va ancora piano, ma è molto più forte di prima». Insomma quello che c’era da fare è stato fatto. Ora il giudizio agli italiani, con la postilla che Renzi non ci sta a farsi condizionare dai sondaggi: «Si vince, secondo le mie previsioni, con il 60% di affluenza, con 15 milioni di Sì. Quindi è fondamentale portare tanta gente a votare».
Ma se poi alla fine vincessero davvero i No? «Questo governo è nato per cambiare e fare le riforme - ribadisce Renzi -. Ove i cittadini bocciassero le riforme, verificheremo la situazione politica». Verifica, una parola da prima Repubblica, come i governi «tecnici» o «di scopo» già bocciati in anticipo dal premier. Che sicuramente farà il gesto di dimettersi, e al momento i suoi escludono che possa accettare un reincarico anche se sono già molte le spinte in questa direzione (il ministro Franceschini, ad esempio). La partita, in caso di vittoria del No, sarà naturalmente nelle mani del Capo dello Stato, ma Renzi resterà in ogni caso alla guida del Pd per pilotare la transizione verso le elezioni politiche. E la linea al momento è no a governicchi e sì a un governo politico - guidato dal ministro Padoan, ad esempio, anche per tranquillizzare i mercati, oppure dal presidente del Senato Grasso con tutti i ministri attuali al loro posto, oppure dal ministro Delrio o infine dallo stesso Renzi - che faccia due cose: approvare la legge di bilancio e rifare la legge elettorale. Senza tirarla troppo per le lunghe.
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