Nel periodo più nero della crisi globale, tra il 2008 e il 2014, i governi europei hanno concesso aiuti di stato per almeno 2mila miliardi di euro per salvare il sistema finanziario. Una somma colossale - che per alcune istituzioni è stimata addirittura più elevata - che equivale al 14% del Pil europeo. Il dato è ufficiale e viene dalla Commissione europea, che ieri ha presentato le sue proposte di riforma del sistema bancario per ridurre i rischi e aumentare la sostenibilità del sistema. Le proposte dell’esecutivo Ue - che prima di diventare legge dovranno essere approvate dai singoli Stati Ue e dal Parlamento europeo - recepiscono le regole, i requisiti di capitale e i meccanismi di assorbimento delle perdite previsti dagli standard del Comitato di Basilea, con alcuni cambiamenti importanti previsti per le big bank non europee, le Global sistemically important banks (cosiddette G-SIBs), quelle troppo grandi per fallire, «too-big-to-fail», come definite da una raccomandazione del G20 del novembre 2015.
Le nuove regole aggiornano le direttive e il regolamento Ue sui requisiti di capitale (Crr e Crd) e le regole sul salvataggio bancario (Brrd e Srm).
La Commissione dunque prevede dei requisiti di capitale e di liquidità più elevati per le grandi banche extra-Ue, quelle con almeno 30 miliardi di euro di asset in Europa. E fissa dei livelli minimi di capacità di assorbimento delle perdite (Tlac) sempre per questi grandi istituti di credito sistemici, che potranno essere fatti fallire in modo controllato, qualora ce ne fosse bisogno, senza mettere a rischio la stabilità finanziaria del continente.
Le grandi banche straniere, per poter operare in Europa dovranno creare una holding intermedia che rispecchi la casa madre e rispetti i requisiti di capitale previsti per le banche Ue. Una sorta di filiale più piccola che possa dunque essere fatta fallire in caso di problemi sistemici, senza creare scossoni all’intero sistema europeo.
La misura riguarda molte grandi banche americane che operano in Europa, come Jp Morgan Chase & Co e Goldman Sachs, ma anche istituti di Asia e Russia. E potenzialmente, se la Gran Bretagna dovesse uscire completamente dal Mercato unico - a seconda di come verrà tradotto l’esito del referendum sulla Brexit - anche le big bank di Sua Maestà come Barclays e anche per Londra come piazza finanziaria. A Bruxelles, su questo punto, tengono a precisare che l’inasprimento delle regole per le banche britanniche è pura coincidenza, considerando che il lavoro di scrittura della nuova normativa bancaria europea è cominciato molti mesi prima dell’esito imprevisto del referendum. In ogni caso, le proposte Ue, una volta approvate (si prevede un’entrata in vigore non prima del 2018) saranno queste. E se Londra - come sembra - confermerà la decisione di voler uscire totalmente dallo spazio di mercato Ue, dovrà sottostare alle stesse norme previste per le banche “overseas” per operare nello spazio comunitario.
Negli Stati Uniti le nuove regole sono state lette come una sorta di “vendetta” europea, rispetto alle stesse norme americane introdotte nel 2014, che obbligano le banche europee che operano Oltreoceano ad accantonare capitale e liquidità. Per lo stesso motivo le banche Ue salutano con favore l’inasprimento della normativa per le banche straniere. Anche perché le nuove norme Ue arrivano a poche settimane dalla presentazione dalla revisione degli standard di Basilea, attesa per fine anno. Revisione fortemente osteggiata dall’industria bancaria europea anche perché favorirebbe proprio le big bank Usa.
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