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Meno contenzioso con confini più netti tra centro e periferia

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Meno contenzioso con confini più netti tra centro e periferia

Ma che succede ai rapporti tra stato e autonomie con la nuova costituzione, ammesso che questa venga approvata con il referendum del 4 di dicembre? Siamo davvero di fronte ad una ri-centralizzazione dei poteri? Vediamo.

Per quanto riguarda i rapporti tra governi, la nuova costituzione introduce essenzialmente tre novità: rivede il titolo V, cioè la definizione costituzionale delle funzioni dei diversi livelli di governo e dei loro sistemi di finanziamento; elimina definitivamente un livello di governo, le province; introduce il nuovo Senato, composto per tre quarti da membri dei consigli regionali e per un quinto da sindaci. In particolare, il titolo V viene rivisto in più direzioni. Per quanto riguarda le funzioni, scompare la ampia categoria delle funzioni concorrenti, cioè quelle funzioni dove allo stato spetta la definizione dei principi fondamentali mentre alle regioni la legislazione di dettaglio; e vengono riviste le funzioni esclusive di stato e regioni, riportandone molte all’ambito statale. In più viene introdotto il principio dell’interesse nazionale, che consente, a determinate condizioni, allo stato centrale di intervenire anche sulle funzioni attribuite alla competenza esclusiva delle regioni purché, appunto, sia in ballo l’interesse nazionale. Non c’è dunque dubbio che la nuova costituzione sia nel segno dell’accentramento dei poteri. Quanto poi questo accentramento sia reale e quanto fittizio è aperto a discussione.

In realtà, se si guarda ai numeri, è evidente che questo accentramento è in larga parte già avvenuto. Già la corte costituzionale con una serie di sentenze dei primi anni 2000 aveva provveduto ad eliminare gli aspetti più incisivi della riforma del titolo V del 2001; e la crisi economica ha fatto il resto. Basta ricordare che, tolta la sanità, la spesa delle regioni si è contratta del 20% in termini nominali negli ultimi 6 anni e l’autonomia tributaria è stata completamente cancellata dal governo centrale, senza che la corte costituzionale trovasse nulla da dire, nonostante l’attuale costituzione. In più, è facile verificare che le funzioni residue attribuite alla legislazione regionale dalla nuova riforma assorbono già la stragrande maggioranza della spesa delle regioni attuali. Dunque, più che una rivoluzione, si tratta di una razionalizzazione dell’esistente; si riconosce nella nuova costituzione quello che è già di fatto avvenuto per legge ordinaria. Anche l’interesse nazionale è una novità solo parziale; di fatto, la Corte Costituzionale ha già implicitamente usato il concetto in numerose sentenze.

Il vantaggio vero della riforma è che definisce un po’ meglio l’ambito di attribuzione delle competenze delle regioni e ne elimina alcune che davvero non aveva senso assegnare alla regioni; possibilmente, questo dovrebbe ridurre il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni che è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. In più, quello che le regioni perdono a valle lo recuperano a monte, nel senso che tramite il nuovo Senato i rappresentanti delle regioni sono ora direttamente coinvolti nella formazione delle leggi, con un ruolo rafforzato sulle funzioni specifiche di regioni e enti locali. Naturalmente, anche questo dipende dalla misura in cui i nuovi senatori decideranno davvero di rappresentare gli enti territoriali da cui provengono, anche se è probabile, visto che la loro legittimità e i loro poteri sono limitati su altri fronti.

Il nuovo titolo V contiene anche altre novità interessanti. Rivede l’articolo 116, rendendo potenzialmente più semplice il federalismo a velocità variabile, probabilmente l’unico progetto di decentramento sensato nel caso italiano. Rivede anche il sistema di finanziamento, introducendo un esplicito richiamo ai “costi e fabbisogni standard” nei trasferimenti, un modo diverso per dire che lo stato si impegna a finanziare con i trasferimenti alle regioni solo la parte della spesa efficiente. Bene che il principio ci sia; quanto poi sarà tradotto in pratica, naturalmente, è tutto da vedere.

Altri aspetti sono più discutibili. È assurdo avere escluso le regioni a statuto speciale dalle nuove regole, come se l’interesse nazionale riguardasse solo le regioni a statuto ordinario; si poteva approfittare dell’occasione per accorpare le regioni più piccole, eliminando inefficienza; manca una chiara gerarchia tra regioni e comuni che rende difficile applicare altre regole previste dalla costituzione, quali la possibilità di indebitarsi per un ente locale, purché l’insieme degli enti locali di una regione sia in equilibrio finanziario. Come può la regione garantire questo patto se non ha gli strumenti, la finanza locale, per imporre questo equilibrio ai propri enti locali.

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