«Pericolo autoritario? Nel caso di questa riforma, francamente, mi pare evocato a sproposito. Anche perché resta inalterata la forma di governo: nessun potere in più è attribuito al presidente del Consiglio. Ed è peraltro previsto un robusto sistema di contrappesi. Il primo è proprio il Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali, svincolato dal rapporto fiduciario, dotato di autonomi poteri di controllo e valutazione. Gli altri sono individuabili nel ricorso preventivo alla Corte Costituzionale sulle leggi elettorali, nell’irrobustimento degli strumenti di democrazia diretta, nell’elezione di due giudici della Corte Costituzionale da parte del Senato, nei quorum assai più alti previsti per l’elezione del presidente della Repubblica e infine nella previsione dello Statuto delle opposizioni». La presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato Anna Finocchiaro, che ha combattuto in prima linea per portare al traguardo la riforma del Senato e del Titolo V, respinge con forza le accuse di rischio autoritario provenienti anche dal suo partito, il Pd.
Nessun pericolo autoritario, presidente, ma con il meccanismo del voto a data certa il governo viene comunque messo in condizione di vedere approvate in tempi brevi le sue proposte di legge.
Certo. L’articolo 72 riformato prevede che, ad esclusione dei casi di competenza paritaria e altre ipotesi di leggi particolarmente importanti (quali, ad esempio, quelle di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali), il governo possa chiedere che la Camera iscriva con priorità e approvi entro 60 o 85 giorni un disegno di legge ritenuto «essenziale per l’attuazione del programma». E, contrariamente a quanto sento erroneamente sostenere, la Camera potrà apportare modificazioni al testo del governo. È un’innovazione che coniuga la centralità del Parlamento nell’esercizio della funzione legislativa e l’esigenza del governare, che si traduce nel vedere tradotto in legge - in tempi celeri - un essenziale impegno programmatico.
Uno strumento che favorisce stabilità e governabilità.
Uno degli obiettivi della riforma è certamente quello della stabilità dei governi, insieme alla maggiore snellezza ed efficacia del procedimento legislativo ed una più chiara ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni. Ma, al di là del voto a data certa, è proprio con il superamento del bicameralismo paritario che si raggiunge l’obiettivo. In Italia abbiamo visto la successione di 63 governi in 70 anni, cui ha grandemente contribuito un sistema bicamerale in cui entrambi i rami del Parlamento concedono e revocano la fiducia al Governo ma Camera e Senato sono composti in modo diverso (eletto a base regionale il Senato, e con differente elettorato attivo e passivo). Questo ha determinato una instabilità nel rapporto governo-maggioranza che fu avvertita e denunciata già in fase di discussione della Costituzione del ’48 sino all’approvazione dell’ordine del giorno Perassi che si pronunciava per l’adozione del sistema parlamentare «da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Inutile aggiungere che quell’ordine del giorno non ebbe seguito.
In che modo il ricorso ai decreti sarà limitato? Sarà spezzato il circuito perverso decreto/fiducia/maxiemendamento?
La nuova disciplina dei decreti legge prevede serie limitazioni ai poteri del governo nel ricorso a questo strumento. Ne viene infatti limitato l’uso per una serie di materie ed ipotesi, viene previsto che i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo (non ci saranno, dunque, i decreti “omnibus” che abbiamo conosciuto) e che, durante l’esame in Parlamento, non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto e alla finalità del decreto (e questo in aderenza alla giurisprudenza della Corte Costituzionale). In questo senso si pone un limite all’abuso di quel circuito perverso.
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