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Un’alleanza con i lavoratori per far funzionare la riforma

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Attualità

Un’alleanza con i lavoratori per far funzionare la riforma

Il tira e molla sulla salvaguardia del «diritto» agli incarichi di vertice per chi già oggi è ai vertici della macchina amministrativa sembra un dettaglio all’interno del panorama disegnato dalla riforma Madia. Ma i dettagli, si sa, si rivelano spesso utilissimi per chiarire questioni più generali.

In sintesi, la questione è la seguente. La riforma prova a costruire una «dirigenza della Repubblica», in cui chi supera le selezioni per entrare nei ruoli può ambire a tutti gli incarichi in un mercato che va senza barriere dai Comuni ai ministeri. La concorrenza apre opportunità a chi sta in basso ma comporta rischi per chi è in alto, e si trova a competere con una platea più ampia per trovare un incarico di pari livello o rischia di spuntarne uno meno prestigioso. Ovvio, allora, che chi sta in alto storca il naso.

Che fare, allora? Per trovare la risposta giusta bisogna abbandonare il “dettaglio” e passare a un principio più generale. Per far uscire la riforma della pubblica amministrazione dalle carte dei decreti e portarla nella realtà degli uffici e, soprattutto, della vita quotidiana dei cittadini-utenti, bisogna costruire un’alleanza con chi nella pubblica amministrazione lavora, a tutti i livelli. Ma sull’altare di questa alleanza non bisogna sacrificare troppo del coraggio innovatore senza il quale la riforma è tempo perso. Il coraggio, ovviamente, va praticato attraverso meccanismi a prova di bomba, e soprattutto bisogna affrontare in fretta l’eterna promessa di una valutazione individuale oggettiva senza la quale ogni “mercato” della dirigenza rischia di trasformarsi in arbitrio.

Si giocano tutte sulla ricerca di questo difficile equilibrio fra esigenze della politica e terzietà dell’amministrazione le chance di successo effettivo della delega Madia, che con la tappa nel consiglio dei ministri di ieri entra nella sua fase decisiva, nell’ultimo giro di pista a conclusione di una gara che finora non ha potuto esprimere un vero vincitore.

Il cantiere dei decreti, certo, è aperto da molto tempo ma fin qui, per così dire, è stato tutto facile. È facile, infatti, scrivere nei decreti che la teoria sterminata delle partecipate, soprattutto quelle che lavorano per la Pa e non per dare servizi ai cittadini, deve chiudere i battenti o lasciare spazio al mercato, che le conferenze dei servizi in cui si decide lo sviluppo dei territori non possono durare in eterno e che il diritto di accesso deve essere generalizzato secondo il modello anglosassone. La parte difficile viene ora, per due ragioni: le regole più o meno coraggiose scritte nei decreti già approvati ora vanno applicate, e con il provvedimento sui dirigenti e quello in arrivo sul pubblico impiego si entra nel vivo dell’organizzazione della nostra Pa.

I due decreti, su dirigenti e pubblico impiego, sono ovviamente legati a doppio filo, perché vertici amministrativi e dipendenti sono due parti dello stesso corpo e le regole che provano a cambiare le regole di una parte non possono non riguardare anche l’altra. È questo, allora, il passaggio impossibile da gestire “contro” i lavoratori pubblici, e bene ha fatto il governo a far coincidere l’approvazione della riforma dei dirigenti con l’avvio delle trattative vere sul rinnovo dei contratti. Non è solo la Corte costituzionale, che ormai 16 mesi fa ha dichiarato l’illegittimità di un blocco a tempo indeterminato, a imporre questo passaggio: cambiare la pubblica amministrazione senza sfiorare una situazione retributiva ormai parecchio invecchiata sarebbe infatti una sfida persa in partenza.

Se questo è il contesto, però, il rinnovo contrattuale non può limitarsi a distribuire fra le buste paga gli aumenti resi possibili dalle risorse a disposizione e dall’inflazione praticamente piatta del periodo. I sindacati fanno il loro mestiere, e puntano ovviamente l’attenzione sulla cifra degli aumenti a regime, cioè sull’ingrediente più classico delle trattative e dei comunicati che le accompagnano. In gioco, però, c’è molto di più: bisogna rivedere le regole di distribuzione di premi e incentivi, dopo che la riforma del 2009 ha scatenato un dibattito infinito ma non ha spostato un euro sulla base del «merito» e della «produttività». Rivedere quei meccanismi è un passaggio cruciale per premiare davvero chi se lo merita, cioè i tanti dipendenti pubblici che lavorano con passione poco pagata e sono stati le prime vittime di blocchi e tagli lineari; smontarli per tornare ai tempi dell’egualitarismo per legge, però, significherebbe imboccare contromano la strada della riforma.

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