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Gli errori ripetuti di un Titolo V da cambiare

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la posta in gioco/LA RIFORMA DEL 2001

Gli errori ripetuti di un Titolo V da cambiare

Per riformare le regole su dirigenza e dipendenti pubblici, servizi locali e partecipate serve l’«intesa» con regioni ed enti locali: il «parere», che non dà potere di veto alle singole amministrazioni, non basta. Lo dice l’attuale Titolo V della Costituzione, e ieri lo ha ribadito la Consulta.

Molto si può dire della sentenza costituzionale piombata ieri sulla delega Madia, tranne che sia giunta inaspettata a tutti. Fra i tecnici del governo c'era stata a suo tempo una discussione sulla necessità di prevedere l'intesa con le autonomie al posto del parere, ma alla fine era prevalsa la linea più “risoluta”. Peccato, però, che Costituzione alla mano questa linea si sia rivelata inefficace, e apra ora un'incognita pesante sulle sorti di parti importanti dell'attuazione della riforma della Pa. A otto giorni dal voto, la vicenda riporta la luce su uno dei temi referendari più importanti, anche se oscurato da una campagna elettorale che ha preferito parlar d'altro. In gioco non c'è la Costituzione dei padri della Repubblica, ma la parte vergata più modestamente dai loro figli nel 2001, quando il centrosinistra pensò di usare la Carta per intestarsi le parole d'ordine del federalismo e dell'autonomia portate da una Lega allora arrembante al centro del dibattito politico.I risultati elettorali si incaricarono di mostrare subito che quel tentativo aveva il fiato corto, ma ci pensarono poi l'economia, il fisco e il conflitto permanente fra Stato e Regioni a spiegare in modo più strutturale gli effetti di quella scelta sulle chance di riformare il Paese.

Di quel conflitto, che in 15 anni ha prodotto migliaia di sentenze sui temi più disparati, la sentenza di ieri rappresenta solo l'ultimo, pesante risultato.Il problema, ovviamente, non è la Corte costituzionale, ma un sistema di rapporti fra Stato e autonomie locali mai chiarito fino in fondo, che moltiplica il lavoro di giuristi e avvocati ma rischia di azzoppare le opportunità di molti altri. Per capire il nodo, ora affrontato dalla nuova riforma del Titolo V, basta osservare l'ultima contesa: che cosa cambia, sul piano pratico, fra il «parere» e l'«intesa»?La differenza sostanziale risiede nel fatto che il parere è “collettivo”, mentre l'intesa richiede l'unanimità delle regioni, e offre quindi un potere di veto a ogni singola amministrazione intenzionata a opporsi per motivi tecnici o politici. In questo modo le regioni finiscono per avere sui decreti attuativi un peso maggiore dello stesso Parlamento, al quale il governo chiede un parere e al massimo poi spiega perché non ne ha tenuto conto. Anche se l'«intesa» manca, in realtà, il governo può andare avanti con delibera motivata passati 30 giorni, com'è accaduto anche recentemente, ma questa clausola che funziona tranquillamente su argomenti “minori” crea sconquassi su questioni più politicamente delicate, soprattutto quando entrano direttamente nelle loro competenze centrali.La storia dei molteplici inciampi costituzionali incontrati ad esempio dai tanti tentativi di riforma dei servizi pubblici locali, colpiti anche dalla nuova pronuncia, insegna che un sistema di questo tipo finisce per rivelarsi un elastico in grado di riportare alla casella di partenza tutti i tentativi di intervento. Quando i temi riguardano competenze locali, ovviamente, le riforme non si possono fare contro le regioni e i comuni: ma senza rapporti più chiari, e una camera di compensazione e di rappresentanza unitaria, compito non semplice intestato al nuovo Senato, si rischia di incrinare il confine fra democrazia e anarchia.

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