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Dossier Sale l’appeal del private equity

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    Dossier | N. 9 articoliRapporto Private Banking

    Sale l’appeal del private equity

    Iacopo Corradi
    Iacopo Corradi

    Il private equity sta entrando con prepotenza nei portafogli delle private bank. C’è un ritorno di interesse molto elevato, dettato dalla ricerca di rendimento. «Se fino a qualche tempo fa molti portafogli erano esposti per un 70% sull’obbligazionario, oggi quella porzione di portafoglio non genera più valore – commenta Riccardo Farisi, partner e investment strategist di Scm Sim – e quella rimanente è esposta a una forte volatilità legata alle oscillazioni dell’azionario, che non ha più il buffer di protezione offerto dai bond. Avendo una visione globale della ricchezza dei nostri clienti, siamo ricettivi di opportunità di partecipazione a investimenti in asset class non tradizionali e correlate, come per esempio le start-up e realtà industriali più consolidate attraverso lo strumento del club deal. Oggi, perfino gli hedge fund non sono più decorrelati, perché stanno diventando in parte un investimento di massa: basti pensare a Goldman Sachs che ha lanciato un Etf sui fondi hedge. Restano quindi solo le classi degli illiquidi, come il private equity e il venture capital». Una visione confermata anche da Andrea Rotti, direttore investimenti gestioni patrimoniali di Ersel, che fa notare come «il private banking sia un settore tipicamente caratterizzato da un buon grado di liquidabilità degli investimenti; ma dato che il mondo delle asset class liquide è andato via via impoverendosi sul fronte dei rendimenti, il settore deve attrezzarsi per allargare il proprio perimetro di offerta. È quindi prevedibile che da qui in avanti l’offerta del settore si arricchirà su alcune porzioni di portafoglio anche di soluzioni meno liquide, con prospettive di rendita più elevata nell’orizzonte temporale corretto, cioè con tempi di realizzo più lunghi – sottolinea –. Su questo fronte, si prenderanno in considerazione anche gli investimenti in private equity, unitamente ad altre forme di investimento dal minor grado di liquidabilità».

    Negli Usa il private equity è di moda già da diversi anni, «come testimoniano svariate ricerche universitarie – precisa Iacopo Corradi, managing director di Azimut Wealth Management –le famiglie con asset almeno di 5 milioni di dollari hanno nei loro portafogli una quota investita in strumenti non quotati che raggiunge il 30%. E quando parliamo di strumenti non quotati, per l’80% parliamo di private equity. E se in Europa il wealth management investe nel private equity in percentuali simili all’America, non si può dire lo stesso dell’Italia», anche se la tendenza in futuro sarà questa. D’altronde, in un contesto di tassi zero, in un orizzonte di lungo periodo diventa naturale puntare su un settore come quello del private equity che investe sulle società in grado di generare reddito. «Abbiamo lanciato un fondo di pre-booking company, Ipo Club, dedicato ai clienti del gruppo Azimut– sottolinea Corradi –. Il fondo ha una capacità di 150 milioni di euro (è quasi giunto alla chiusura, ndr) e investirà solo in economia reale mediante quote di minoranze in eccellenze italiane, ovvero in aziende medio piccole. Puntiamo a fare una decina di operazioni con l’obiettivo poi della quotazione in Borsa. Il progetto, comunque, ha una portata più ampia rispetto ai 150 milioni di raccolta. Parliamo di 500 milioni. I sottoscrittori potranno fare investimenti aggiuntivi e diretti, fino a un massimo di 350 milioni, nelle società che fanno parte del portafoglio di Ipo Club. È un progetto unico in Italia, che suscita l’interesse di altri competitor».

    Ma se da un lato il private equity può aiutare a creare valore nei portafogli della clientela private, «dall’altro lato non può essere considerata la panacea di tutti i mali – fa notare Roberto Tronci, chief investment officer di Albacore –. Occorre selezione e una massa finanziaria adeguata. Non bisogna dimenticarsi che parliamo di investimenti in strumenti illiquidi. Alle famiglie con cui collaboriamo consigliamo di dedicare al portafoglio illiquido tra il 20% e il 30% dell’asset allocation complessiva. Poi ci sono le famiglie che vengono da noi solo per fare operazioni illiquide. E in questi casi la percentuale in portafoglio può arrivare anche all’80-90%. Da segnalare – aggiunge – che gli investimenti sono diversificati su più fronti: per strategia, per localizzazione geografica e per durata dell’investimento stesso». E i rendimenti oggi stanno premiando il private equity. «Il nostro portafoglio 2002, per fare un esempio, sta rendendo il 14,4% annualizzato, mentre quello 2011 il 15,7%», conclude Tronci. Dunque, sì al private equity in portafoglio, ma con selezione e diversificazione.

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