In caso di successo nelle urne referendarie di domani, la riforma della Costituzione busserebbe alle porte delle Regioni con un effetto molto forte sul piano simbolico ma tutto sommato limitato sul piano pratico: lo stop al riconoscimento di «rimborsi o analoghi trasferimenti monetari» a carico della finanza pubblica per i gruppi regionali. È diventato un tema di forte attualità a partire dal 2012, quando nacque nel Lazio e si propagò più o meno in tutta Italia il caso dei rimborsi gonfiati ai gruppi, ma è poi stato tamponato dalle norme di spending review attuate d’accordo con le regioni stesse e vale oggi una trentina di milioni all’anno.
Come accade in quasi tutti i capitoli della riforma, però, il suo primo effetto pratico è solo l’apripista di un riassetto decisamente più profondo, che per entrare a regime ha bisogno di una serie di regole attuative e soprattutto di calarsi nella pratica dell’amministrazione.
Il tema chiave, ovviamente, è il ridisegno dei compiti di giunte e consigli regionali, che nella Costituzione ripensata perdono la coabitazione con lo Stato nelle materie che il testo attuale assegna alla «competenza concorrente» e si concentrano sulla potestà legislativa espressamente assegnata ai territori. L’idea di fondo è quella di riportare l’ottica dei governi locali dentro ai loro confini amministrativi, puntando la loro attenzione sulla pianificazione territoriale di servizi, infrastrutture, mobilità e sviluppo, con un occhio attento alla valorizzazione dei beni culturali e del turismo. Naturalmente è impossibile separare con un taglio d’accetta le competenze statali e quelle locali, ma al posto della confusa e conflittuale «competenza concorrente» il nuovo assetto costituzionale propone per le materie in cui i diversi livelli di governo dovranno lavorare insieme una distinzione di principio: sulla salute, l’istruzione, le politiche attive del lavoro e il governo del territorio Roma fisserà le «disposizioni generali e comuni», valide per tutto il Paese, mentre alle regioni toccheranno le loro declinazioni territoriali.
Il principio non è inedito, perché per esempio guida già oggi le regole della sanità e del welfare, in cui lo Stato è chiamato a fissare i «livelli essenziali» di prestazioni e servizi e le amministrazioni territoriali hanno il compito di realizzarle. Le difficoltà evidenti nell’incontrare in tutta Italia i parametri omogenei previsti sulla carta indicano che anche dopo la riforma non sarà facile arrivare al risultato. Governi e consigli regionali, in ogni caso, dovranno individuare con chiarezza i confini delle loro decisioni, perché in caso di sforamento potranno incappare nella «clausola di supremazia» che consente allo Stato di intervenire nelle materie territoriali quando lo imponga la difesa «dell’unità giuridica o economica della Repubblica» o «dell’interesse nazionale».
Sul piano amministrativo e della finanza pubblica, la riforma certifica il compito di regia che le Regioni hanno già visto crescere in questi anni nel rapporto con gli enti locali del loro territorio. Il terreno più delicato, sul piano degli ordinamenti, è quello della gestione delle alleanze locali per gestire i compiti di area vasta dopo la scomparsa anche costituzionale delle Province. Anche qui, la legge dello Stato dovrà definire i «profili ordinamentali generali» degli enti di area vasta, mentre le leggi regionali si occuperanno di disciplinare gli aspetti di dettaglio. In pratica, si tratterebbe della replica strutturale di quanto già sperimentato con la riforma delle Province avviata con legge ordinaria nel 2014, con tutte le difficoltà del caso.
Lo stesso accade sul piano della finanza pubblica, dove la Carta riformata chiede ai territori di regolare «le relazioni finanziarie fra gli enti» per portarli a rispettare gli «obiettivi programmatici» di bilancio a livello regionale e locale. Diventa strutturale, insomma, il sistema dei «patti» in cui gli enti locali dei singoli territori si scambiano spazi finanziari, in un meccanismo nel quale le amministrazioni con i bilanci più solidi aiutano (in cambio di “premi”) quelle in difficoltà purché non cambi il saldo complessivo di bilancio.
Insieme a questo riassetto delle competenze, la riforma porta con sé una serie di interventi più diretti sullo “status” dei politici locali, a cominciare dalle loro indennità che non potranno superare quelle fissate dalla legge per il sindaco del Comune capoluogo. Il colpo può essere importante, e arrivare anche a dimezzare alcune delle indennità attuali, ma tutto dipende da come i nuovi tetti si incroceranno con i «rimborsi» (esentasse) legati ai mandati.
Anche qui sarà la legge nazionale a fissare i principi di base, compresa la tutela della parità di genere nei consigli, ma la loro applicazione pratica sarà nelle mani delle regole regionali.
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