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Bicameralismo, titolo V, Cnel: italiani al voto, sfida tra…

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Il REFERENDUM

Bicameralismo, titolo V, Cnel: italiani al voto, sfida tra sì e no

Ansa
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A 236 giorni dal via libera del Parlamento, per la riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo e riscrive il Titolo V della nostra Carta fondamentale (47 nel complesso gli articoli modificati) è arrivato il giorno del giudizio popolare. L’obiettivo principale del legislatore è quello di superare il bicameralismo paritario, una anomalia rispetto ai grandi Paesi europei, che ha caratterizzato per 70 anni il nostro sistema istituzionale: ossia l’esistenza di due Camere elette direttamente, entrambe legate al governo da rapprorto fiduciario, che fanno le stesse cose. I progetti di legge vengono approvati in prima lettura in un ramo del Parlamento e in seconda lettura, definitiva solo se “conforme”, nell’altro ramo. Con la conseguenza che, se il testo viene modificato anche solo marginalmente, il percorso deve ricominciare. È la cosiddetta “navetta” parlamentare a cui spesso si è fatto riferimento in questa lunga campagna referendaria.

Il progetto di superare il bicameralismo paritario trasformando il Senato in una camera rappresentativa delle istituzioni locali risale ai tempi della Costituente. Per restare all’ultimo ventennio, i tentativi sono stati sostanzialmente tre: la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nel 1997-98, che approvò un testo che stabiliva che solo la Camera dovesse dare la fiducia al governo pur mantenendo un Senato elettivo; la riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel 2005 sotto il governo Berlusconi, che prevedeva anch’essa il superamento del bicameralismo paritario con la fiducia al governo data solo dalla Camera (venivano poi rafforzati i poteri del premier e introdotta la “devolution”), riforma che però fu bocciata nel referendum confermativo del 2006 con il 61,3% di No; infine la cosiddetta “bozza Violante” approvata in commissione alla Camera dalla maggioranza del governo Prodi nel 2007 e poi naufragata assieme al governo stesso. Proprio la bozza Violante può considerarsi la madrina più prossima della riforma Boschi, dal momento che prevedeva l’istituzione di una Camera delle Regioni eletta in secondo grado dai Consigli regionali. Tuttavia la bozza Violante prevedeva anche un rafforzamento dei poteri del premier di cui nella riforma Boschi non c’è traccia: questo aspetto non è stato toccato per evitare divisioni su un tema controverso tra il Pd e Fi(va ricordato che durante la prima parte dell’iter il partito di Berlusconi ha contribuito alla stesura della riforma).

Il superamento della “navetta” parlamentare e dunque la velocizzazione dell’iter legislativo (oltre il 90 per cento delle leggi, con la riforma, sarebbe approvato dalla sola Camera) è solo uno degli obiettivi che si propone il legislatore. Perché uno dei maggiori fattori dell’instabilità dei governi nella Seconda Repubblica è stato l’esistenza stessa di due Camere legate entrambe da rapporto fiduciario con il governo ma elette in modo diverso e con base elettorale diversa: dal 2001, dopo la prima riforma del Titolo V, la nostra Costituzione prevede che il Senato debba essere eletto su base regionale; inoltre per la Camera votano i maggiori di 18 anni mentre per il Senato solo i maggiori di anni 25: si tratta di più di 4 milioni di persone che con il loro comportamento elettorale possono determinare due maggioranze diverse nelle due Camere. Come è di fatto accaduto nel ’94 (quando Berlusconi vinse al Senato ma non alla Camera), nel ’96 (quando Prodi vinse al Senato ma non fu autosufficiente alla Camera), nel 2006 (Prodi all’inverso, ossia vittorioso alla Camera e traballante in Senato) fino al corto circuito del 2013 (quando il Pd di Bersani vinse alla Camera ma non in Senato, tanto che fu necessario fare un governo di larga intesa).

Con la trasformazione del Senato in un organo rappresentativo delle Regioni e dei Comuni senza più rapporto fiduciario con il governo viene quindi superato, nell’ottica del legislatore, il principale fattore di instabilità a prescindere dal sistema elettorale. I sostenitori del No concentrano le loro critiche sull’iter legislativo che resta complesso, sulla composizione del Senato e soprattutto sul fatto che la riforma Boschi prevede l’elezione indiretta dei consiglieri-senatori (74) e dei sindaci (21) da parte dei Consigli regionali. In terza lettura, proprio per tentare di venire incontro a tali critiche, è stata inserita nel testo la precisazione che i consiglieri-senatori debbano essere nominati dai Consigli «in conformità alla scelte espresse dagli elettori» al momento del voto regionale. L’elezione resta formalmente di secondo grado, ma se la riforma verrà confermata gli elettori avranno a disposizione un meccanismo (da individuare con legge ordinaria) per indicare la loro preferenza per il consigliere-senatore. Una soluzione che evidentemente per i sostenitori del No non è sufficiente. Non eletti direttamente, i futuri senatori godranno comunque dell’immunità prevista per i deputati. E questo è uno degli aspetti più criticati dal fronte del No, con l’argomentazione che la classe politica regionale potrebbe “selezionare” i consiglieri-senatori con il criterio dell’immunità, mandando cioè in Senato gli indagati.

La riforma Boschi prevede anche la cancellazione del Cnel e delle province e alcuni meccanismi di controllo dei costi della politica come l’abolizione del finanziamento ai gruppi consiliari e la specificazione che i consiglieri regionali non potranno ricevere un’indennità maggiore del sindaco della città capoluogo della Regione. C’è poi il sostanzioso capitolo della riscrittura del Titolo V dopo la riforma del 2001 voluta dall’allora centrosinistra: vengono abolite le materie “concorrenti”, con l’obiettivo tra l’altro di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni davanti alla Consulta, e vengono riportate in capo allo Stato alcune materie strategiche per lo sviluppo economico del Paese come le grandi reti infrastrutturali ed energetiche, il turismo, l’ambiente, le politiche attive del lavoro. Viene poi introdotta la clausola di supremazia secondo la quale lo Stato, attraverso il governo, può avocare a sé una o più materie di competenza di una Regione se lo richiede l’interesse nazionale. A compensazione viene introdotto il cosiddetto federalismo flessibile: le Regioni in regola con i conti pubblici possono chiedere l’allargamento delle loro competenze “togliendole” allo Stato. Per alcuni sostenitori del No (il fronte dei contrari su questo punto è diviso al suo interno) le Regioni vengono di fatto svuotate di poteri.

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