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Jobs act, regole certe che hanno dato credibilità all'Italia

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L'Analisi|l'analisi

Jobs act, regole certe che hanno dato credibilità all'Italia

Se c'è un effetto che viene riconosciuto, in modo piuttosto pacifico, al Jobs act è quello di aver ridato credibilità all'Italia, dopo decenni di ritardi e riforme mancate. È sufficiente ricordare i numerosi solleciti ricevuti dal nostro Paese (a partire dalla “famosa” lettera della Bce del 2011) a rendere più flessibile il mercato del lavoro, puntando su un moderno sistema di protezioni sociali, per cogliere l'importanza della legge Renzi-Poletti anche fuori dai confini nazionali. Il provvedimento, poi attuato da otto decreti legislativi, è stato subito apprezzato dai principali enti e organismi esteri; e in Europa è considerato un tassello centrale del processo riformatore italiano.

Il perchè risiede anche nella fisolofia che ha animato la sua promulgazione. Le nuove regole, con l'introduzione del contratto a tutele crescenti e il giro di vite sui rapporti di impiego “fasulli”, ha un obiettivo piuttosto chiaro: cogliere quei timidi segnali di crescita, incentivando, con il mix sgravi contributivi e regole chiare, le forme di lavoro virtuose (vale a dire, quelle “alle dipendenze”), e al tempo stesso, contrastando le forme “più precarie” (cercando, così, di porre un argine all'abuso di partite Iva e finte collaborazioni, penalizzanti in primis per i giovani).

La sfida è quella di far tornare a rendere “appetibile” alle imprese la forma normale d'ingresso nel mercato del lavoro, cioè il contratto a tempo indeterminato. E i primi numeri mostrano che ciò si sta realizzando: la percentuale di nuovi ingressi stabili - sul totale dei contratti attivati - è salita, ha detto l'Inps, al 29,3% (quasi uno su tre), e da marzo 2015 (entrata in vigore delle tutele crescenti) a ottobre 2016 (ultimo dato disponibile) l'Istat ha certificato un aumento di 421mila occupati, di cui ben 365mila “permanenti”.
Certo, l'economia, ancora fiacca, non è riuscita a fare “da moltiplicatore”; ma aver ridato certezza del diritto agli operatori è stato senz'altro un altro passo avanti.

In questo senso, proporre un nuovo cambiamento delle regole, per reintrodurre la tutela reale in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, come chiede uno dei tre quesiti della Cgil, e riaffidando, in ultima analisi, alle decisioni “discrezionali” dei giudici le scelte di politica aziendale, addirittura nelle realtà fino a 5 dipendenti, rischia di vanificare gli sforzi finora fatti; e come nel classico gioco dell'oca, di far tornare tutti alla casella di partenza.

Anche perchè l'evocata crescita dei licenziamenti disciplinari non è collegata all'arrivo del contratto a tutele crescenti, quanto piuttosto al crollo delle dimissioni per la nuova procedura piuttosto ostica specie per i lavoratori stranieri; e inoltre sul boom dei voucher (qui la Cgil chiede di cancellare l'istituto) ancora non si vedono gli effetti della tracciabilità, in vigore da ottobre, introdotta dal governo Renzi. Insomma, tornare indietro, andando addirittura oltre lo Statuto dei lavoratori degli anni '70 ,rischia di riportarci nel passato. E soprattutto di allontanarci dalle sfide che ci attendono nell'immediato futuro: Industria 4.0, nuovi lavori, una rinnovata politica industriale.

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