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DAL DECRETO ALLA RICAPITALIZZAZIONE

Conversione bond, aumenti di capitale, burden sharing, rimborsi: ecco il «piano B»

Oggi il consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi traccerà una linea in fondo alle operazioni di conversione volontaria delle obbligazioni subordinate in tasca ai piccoli investitori e alla fetta di aumento di capitale, il 35%, riservato agli azionisti e al pubblico indistinto. Due passaggi fondamentali per capire se l’operazione «di mercato» mantiene qualche chance di successo oppure se occorrerà passare al «piano B» con l’intervento pubblico portato dal decreto atteso in Consiglio dei ministri.

La conversione dei bond
Se prenderà piede la seconda ipotesi, il suo primo effetto sarà il passaggio dalla conversione volontaria, che paga a premio i titoli subordinati rispetto alle quotazioni attuali, a quella forzosa, che si rivelerà invece decisamente più avara. Quanto? Il conto a carico degli obbligazionisti subordinati è imposto dalle regole Ue, che chiedono di far precedere il sostegno pubblico straordinario dal «burden sharing», cioè appunto dalla condivisione dei costi da parte degli investitori. In questa prospettiva, dal momento che l’aumento di capitale «precauzionale» mantiene solvibile il Monte dei Paschi, resta in panchina il bail in vero e proprio, che farebbe pagare pegno anche ai depositi superiori a 100mila euro e ai titolari di obbligazioni ordinarie.

Il via libera Ue
Sempre dall’Europa deve arrivare il via libera al prezzo della conversione forzata, che deve essere sufficientemente basso per evitare le obiezioni della Direzione generale Concorrenza di Bruxelles per violazione della normativa sugli aiuti di Stato al Monte. Il prezzo non è noto, e ovviamente non può esserlo mentre è ancora in corso il tentativo privato, e il giudizio arriverà da Bruxelles dopo l’eventuale approvazione del decreto che attiva l’intervento pubblico su Rocca Salimbeni. In ogni caso, il confronto tecnico fra Roma e Bruxelles sul punto è già stato portato avanti, per evitare di fissare un prezzo di conversione destinato poi a essere bocciato da Bruxelles.

Burden sharing inevitabile?
No. E a oggi le chance di evitarlo non sono appese solo all’esile filo del successo pieno per l’operazione «di mercato». Nei giorni scorsi (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 dicembre) è stata valutata anche una terza via, che si aprirebbe in caso di insuccesso “parziale” dell’operazione di questi giorni. Se conversioni volontarie e aumenti privati arrivassero non troppo lontano dalla soglia dei cinque miliardi, è stata studiata l’ipotesi che vedrebbe il Tesoro e gli altri big sottoscrivere una parte di aumento un po’ superiore a quella dovuta in base alle rispettive quote di azioni in portafoglio. Il presupposto è che a quel punto non solo il governo ma anche i principali investitori che lo affiancano avrebbero tutto l’interesse a non far saltare l’operazione per qualche centinaio di milioni: il pezzo di strada che manca, però, non potrebbe essere coperto integralmente dal governo senza inciampare nel «no» Ue all’aiuto di Stato. Al momento, con il piano A ancora lontano dal traguardo, si tratta di un’ipotesi di scuola, ma se si verificasse eviterebbe il burden sharing

I rimborsi
Il burden sharing, come detto, scatterebbe invece dopo il pieno insuccesso del tentativo privato. Questa prospettiva azzererebbe l’operazione di mercato, comprese le adesioni alla proposta di conversione dei bond. Le regole, italiane ed europee, prevedono però anche la possibilità di indennizzare i titolari di obbligazioni subordinate se si prova il «misseling», cioè la vendita di un prodotto non in linea con il profilo di rischio e le conseguenti esigenze di informazione per chi lo acquista. Il precedente è rappresentato dai rimborsi per gli obbligazionisti azzerati dalla risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, che nel meccanismo automatico (forfait dell’80% per chi ha un reddito fino a 35mila euro o un patrimonio mobiliare fino a 100mila) sono partiti mentre per quello arbitrale attendono ancora la definizione delle regole dopo lo stop del Consiglio di Stato. Le quattro banche, però, andarono appunto in risoluzione, scenario che non riguarda il Monte dei Paschi.

Aumento di capitale
Oltre alla conversione forzata, il piano B prevede la ricapitalizzazione precauzionale del Monte per riportarlo ai livelli di sicurezza alla luce del deconsolidamento dei crediti deteriorati imposto dalla Bce. Bisogna ricordare che Mps è l’unica banca a non aver superato gli stress test Eba del luglio scorso. Anche questa operazione deve avvenire entro il 31 dicembre, anche per evitare il rischio di problemi di liquidità indicato dalla stessa Bce quando ha negato una nuova proroga, e i tempi restano dunque stretti. Il decreto che il governo si prepara ad approvare una volta ottenuto il via libera del Parlamento apposterà infatti il fondo «salva-risparmio» da 20 miliardi, ma sarà poi un provvedimento successivo ad appostarne una fetta per Rocca Salimbeni.

Il debito
A coprire l’operazione sarà un’emissione di titoli di debito pubblico ma l’impatto sul debito non dovrebbe diventare strutturale. L’emissione è infatti una tantum e la stessa ricapitalizzazione pubblica, secondo le regole europee, deve essere non solo «precauzionale» ma anche «temporanea» (articolo 32 della Brrd). Il costo, insomma, dovrebbe rientrare una volta rimessa in sesto la banca e “restituita” al mercato, anche se i precedenti mostrano che spesso la strada è più complicata del previsto.

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