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Il reddito minimo? In Emilia Romagna esiste già

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Il reddito minimo? In Emilia Romagna esiste già

  • –Elisabetta Gualmini

Caro direttore,

ho letto con interesse l’editoriale di Luca Ricolfi sul reddito di cittadinanza (si veda Il Sole 24 Ore del 27 dicembre), come sempre molto brillante e ben informato. Questo di Ricolfi non sorprende. Sorprendono invece molto di più la tesi di fondo e le conclusioni a cui si giunge.

In pratica Ricolfi sostiene che nel dibattito politico si stia giocando con slogan e parole (sul reddito di cittadinanza) puntando a raggranellare un consenso facile facile e vendendo una cosa spacciandola per un’altra (come quando acquisti una vacanza in un hotel di lusso e ti ritrovi in una decadente pensioncina vintage benché vista mare). Non solo il reddito di cittadinanza nel suo significato più proprio, cioè come aiuto economico dato a tutti sulla base del solo requisito dell’appartenenza a una comunità, non esiste da nessuna parte in Italia (nemmeno nella versione a 5 Stelle), ma quello che si sta cercando di proporre sarebbe una specie di reddito-arlecchino, lontanissimo dal modello originario, una misura selettiva e discriminante, con talmente tanti vincoli e paletti all’accesso, che rischia di alimentare le diseguaglianze invece che di alleviarle. Molto meglio sarebbe il credito di imposta negativo, sostiene Ricolfi (anche se nessuno ci hai mai spiegato quanto costerebbe alle tasche dei contribuenti…) .

In Emilia Romagna, a dire la verità, abbiamo provato a muoverci nella direzione esattamente contraria ad Arlecchino. La legge sul reddito di solidarietà, approvata dopo due anni di intenso lavoro su dati, statistiche e test di fattibilità, risponde a due precisi obiettivi. Primo: integrare e correggere il reddito d’inclusione nazionale (Sia), rivolto solo alle famiglie con minori, tramite l’estensione a tutti i cittadini residenti da almeno due anni in Emilia Romagna al di sotto di una certa soglia di reddito. Ci interessava l’universalità dell’erogazione, a prescindere dalla presenza o assenza di figli, legata all’unico requisito del reddito, che deve riflettere uno stato di povertà assoluta (i surfisti di Malibù non ci interessano, in altre parole). Proprio per abbattere le diseguaglianze più acute, abbiamo deciso di agire sul segmento più disagiato della popolazione, magari non enorme, ma in quel segmento ci muoviamo in modo non discriminante.

Secondo: abbiamo puntato su progetti personalizzati di reinserimento sociale e lavorativo, che non potrebbero mai essere stipulati per un numero illimitato di persone, come insegnerebbe la teoria del reddito di cittadinanza. Non possiamo caricare gli enti locali di compiti ingestibili. Insomma combinando pragmatismo, sostenibilità, diritti e doveri, abbiamo costruito un vero e proprio reddito minimo per il contrasto alla povertà estrema. Nessun gioco di parole. E ben sapendo che l’attuazione di tutto ciò sarà la vera sfida.

Caro direttore, mi lasci poi togliere un sassolino dalle scarpe. Non tanto nei confronti di Ricolfi, ma più in generale della categoria dei professori a cui peraltro appartengo. Nulla da dire sugli editoriali che ci spiegano come sia importante conoscere bene la teoria, come sia necessario usare le parole giuste e come funzioni il mondo. Ma ogni tanto bisognerebbe ricordare ai lettori quanto sia abissale la distanza tra pratica e teoria e quanto sia complesso rispondere ogni giorno a bisogni e sfide sociali drammatiche. Molti politici ogni giorno e a testa bassa provano a fare questo, con tanti errori, ma con la coscienza a posto. Beccandosi sberleffi e insulti quando va molto bene. Questa è la dura pratica per chi governa.

L’autrice è vicepresidente della Regione Emilia-Romagna

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