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Va in pezzi il partito socialista francese

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Va in pezzi il partito socialista francese

  • –Marco Moussanet

N ell’estate del 2014 – quando in occasaione del rimpasto da cui nacque il Governo Valls II vennero cacciati i ministri della sinistra socialista, tra cui il titolare dell’Educazione Benoit Hamon – e di nuovo in occasione dei numerosi, durissimi scontri tra il premier e i parlamentari frondisti (guidati da Hamon) sulle riforme figlie della svolta “socialdemocratica” (in particolare quella sulle liberalizzazioni voluta dall’allora ministro dell’Economia Emmanuel Macron e quella sul lavoro), Manuel Valls disse ripetutamente che nel partito socialista vi erano «due sinistre inconciliabili».

Ora i leader di queste due “sinistre inconciliabili” – appunto Hamon e Valls – si affronteranno, domenica prossima, al ballottaggio delle primarie che dovrà designare il candidato socialista alle presidenziali di fine aprile. L’outsider Hamon, a sorpresa, ha virato nettamente in testa alla boa del primo turno (con oltre il 36%), distanziando di 5 punti l’avversario. E sulla carta è il superfavorito del secondo turno, avendo ricevuto il sostegno dell’ex ministro del protezionismo economico Arnaud Montebourg (terzo con il 17%), e dei principali esponenti della sinistra rimasti fino a oggi silenziosi (a partire da Martine Aubry, la donna delle 35 ore).

Valls cercherà un improbabile recupero puntando tutte le sue carte sull’irrealizzabilità del programma di Hamon. Che prevede la creazione di un reddito universale di 750 euro mensili a regime (con un costo pazzesco di 350-400 miliardi), l’abrogazione della pur timida riforma del lavoro, la cancellazione delle misure (soprattutto fiscali) a sostegno delle imprese, la sospensione del patto di stabilità e l’abbandono del 3% di deficit, il parziale annullamento del debito pubblico, l’assunzione di 40mila insegnanti, la legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia.

L’ex premier ha già anticipato domenica sera la linea del contrattacco di questa settimana: «Gli elettori socialisti devono scegliere tra una sinistra riformista e credibile e una utopista e sognatrice, tra la cultura dell’opposizione e la responsabilità del governo, una vittoria ancora possibile e una sconfitta certa alle presidenziali». Ma l’orientamento del voto del primo turno (che, per dirla con Montebourg, si è espresso a larga maggioranza per «una sinistra che torni a essere sinistra») sembra dimostrare che questo elettorato – quello che ne rimane, visto che la partecipazione, sia pure nella più totale confusione e incertezza sui numeri, è stata di poco superiore a 1,5 milioni di persone, rispetto ai 2,7 milioni delle primarie socialiste del 2011 e ai 4,3 milioni della primarie della destra – ha ormai dato per scontata la sconfitta socialista alle presidenziali (i sondaggi assegnano al candidato del Ps il 7-9%) e ha quindi preferito mandare un segnale forte ai dirigenti del partito. I quali - all’indomani delle elezioni legislative di giugno, che ne sanciranno la quasi scomparsa dallo scenario politico francese – dovranno occuparsi della sua rifondazione. Se ancora ci saranno le condizioni e i presupposti per provarci.

Già, perché questa è la vera domanda oggi sul tappeto: il partito socialista sopravviverà al disastro del quinquennato di François Hollande? Sembra infatti difficile, per non dire impossibile, che i seguaci di Hamon e di Valls decidano di votare per il vincitore delle primarie. Più probabilmente i primi opteranno per la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon e i secondi per la nuova proposta postpartitica di Macron. Pronti a raccogliere gli sbandati di un esercito socialista che di fatto già non esiste più. E a dividersi le spoglie di un partito che con queste primarie – compresi i sospetti di manipolazione dei dati per cercare di aumentare artificiosamente la partecipazione – ha probabilmente firmato il proprio atto di morte. Almeno nella forma attuale.

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