Chi può tendere la corda fino a spezzarla? Roma non poteva, e dunque spedisce all’attenzione di Bruxelles, ben confezionata quanto a impegni ma avara di cifre, una risposta non risolutiva, che è un modo per prendere tempo almeno fino ad aprile. Così l’iniziativa ripassa alla Commissione europea. Che dovrà fare il passo successivo, anche se nessuno crede che potrà a sua volta troncare il filo del confronto con un “no” duro come una pietra.
Si partiva dalla richiesta europea di una correzione pari a 3,4 miliardi, lo 0,2% del Pil.
Il governo Gentiloni, sullo sfondo di una congiuntura politica arroventata dalla possibilità di elezioni anticipate, con la lettera del ministro Pier Carlo Padoan alla Commissione, rifiuta manovre estemporanee, risponde che l’Italia rispetta il Patto, rimanda al Documento di economia e finanza (Def) di aprile. Lo scostamento indicato da Bruxelles è «presunto», «l’eventuale» differenza verrà colmata a tempo debito con misure di contrasto all’evasione fiscale e con riduzione della spesa. Sullo sfondo una strategia «più ampia» per la spending review e, per le entrate, spinta della tassazione indiretta (torna la parola “accise”). Quando la correzione vedrà la luce, grosso modo sarà pari a 2,4 miliardi, mentre il Governo fa capire che resterebbe fuori un miliardo, cifra che verrà messa sul tavolo europeo alla voce terremoto.
Insomma, il Governo italiano sta deviando dagli impegni presi, come messo nero su bianco dalla Commissione? Due debolezze, quella dell’Italia e dell’Europa, non fanno né una forza né una risposta chiara sul punto. Ma del resto questa è la condizione data. Da un lato un Paese ad altissimo debito in affanno, sempre in transizione, e che (fonte non sospetta: il Bollettino Bce del luglio 2015) «ha registrato i risultati peggiori» sulla crescita del Pil pro-capite tra quelli che hanno adottato l’euro fin dall’inizio. Dall’altro lato un’Europa che da troppo tempo si è chiusa in sé stessa intrappolandosi da sola in un reticolo regolamentare dove gli zero-virgola hanno scandito i tempi e i modi di un progetto via via più asfittico. E anche per questo impopolare. Col risultato che invece di un’autocritica consapevole e una conseguente reazione critica forte si è preferito – si veda alla voce “flessibilità” - allentare qualche briglia. Ma sempre «nel rispetto delle regole» e insieme violandole (Germania compresa), di volta in volta applicando criteri politico-discrezionali per uscire dallo stallo.
Quando il Fondo monetario, notando che quasi i due terzi dei paesi dell’Eurozona, ogni anno dal 2002 al 2015, hanno bucato le regole sulla finanza pubblica in modo “sistematico”, fotografa un dato di fatto. E spiega questo andirivieni di promesse, annunci, reazioni e controreazioni che dai singoli paesi membri arrivano e ritornano da Bruxelles. Fino al compromesso finale, quasi sempre al ribasso per tutti come è stato nella stagione della Commissione guidata oggi da Jean-Claude Juncker, maestro nel tracciare rotte di galleggiamento. Il Patto di stabilità è «poco credibile» osserva il Fondo, peraltro arrivando più o meno alle stesse conclusioni del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Colombe e falchi, sviluppisti e rigoristi, a volte, volano insieme. Si può dare loro torto, in questo caso?
Ma va anche detto che il braccio di ferro tra Italia e Europa non giunge come una sorpresa e comunque, efficace o inefficace, popolare o no che sia, questo è il sistema di regole oggi dato. In attesa di una riforma (ma all’orizzonte non si scorge il necessario coraggio politico) che il gioco dei rimandi storici collocherebbe bene proprio nel 2017: a vent’anni esatti dalla sottoscrizione del Patto che si richiama agli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma del 1957 il cui sessantesimo anniversario sarà celebrato a fine marzo nella Capitale d’Italia.
Tornando alla manovra italiana che Bruxelles ci ha chiesto di correggere, accanto ai punti di forza, i punti deboli erano emersi con chiarezza già in autunno. Erano stati poi “congelati” fino al 4 dicembre, il giorno del referendum costituzionale, nell’attesa congiunta Governo Renzi-Commissione europea della vittoria del sì, rivelatasi poi sbagliata. Ma già il giorno successivo l’Eurogruppo aveva invitato l’Italia a rispettare le regole di bilancio e a rafforzare la manovra per il 2017. Che presentava diversi punti critici sia dal lato delle entrate (molte una tantum e diverse incognite sul gettito atteso dalla lotta all’evasione) che da quello delle spese correnti. Da qui alla lettera della Commissione del 17 gennaio con la richiesta di una correzione dei 3,4 miliardi pari allo 0,2% del Pil il passo è stato breve. Una cifra piccola ma che ha posto e pone un grosso problema.
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