Nel saliscendi di dati sull'occupazione italiana, c'è una categoria che resta fuori dalle statistiche: i freelance, i lavoratori indipendenti che guadagnano con attività autonome e la prestazione del proprio servizio a committenti esterni. Dai consulenti informatici ai designer, dai traduttori ai pubblicitari. Proprio l'Italia è il paese che ne registra il numero maggiore su scala europea e, secondo alcuni parametri, nel mondo.
Stando ai dati Eurostat riferiti al 2015, la Penisola conta 3,6 milioni di «lavoratori autonomi e senza dipendenti» tra i 15 e i 74 anni: il valore più alto dell'Eurozona, contro i 2,2 milioni della Germania e i 2 milioni della Francia. Lo Human capital report, un'indagine del World economic forum sul mercato del capitale umano, allarga il primato su scala globale: l'Italia registra una quota di freelance pari al 4% della forza lavoro, contro il 2% degli Stati Uniti e dell'Australia. Un fenomeno per soli giovani? Non proprio. Se il 14% dei freelance italiani è nella fascia 25-29 anni e oltre il 35% rientra sotto i 40 anni, una quota di più del 60% (circa 2,3 milioni) viaggia tra i 40 e i 64 anni di età. Con retribuzioni che, a volte, calano sotto i 10mila euro l'anno.
L'anomalia italiana: freelance di nome, subordinati di fatto
In realtà non è facile stabilire cosa significhi “freelance”. L'Eurostat parla più genericamente di self employed persons without employees, cioè di persone che svolgono un lavoro autonomo e senza avere avviato un'attività di impresa. «Lavoratore indipendente è un po' generico, meglio lavoratore autonomo. Il freelancing è un modo di lavorare, non una categoria» dice al Sole 24 Ore Chiara Faini, responsabile sviluppo di Smart, una cooperativa che si occupa di tutelare e far riconoscere il lavoro di artisti, creativi e freelance. Che si parli di graphic designer o programmatori, i tratti in comune sono sempre gli stessi: discontinuità tra un progetto e l'altro, un ampio ventaglio di committenti e la tendenza a lavorare «in autonomia e da remoto» – o da soli e a casa, a seconda di come si vive la condizione. In effetti, l'intera dimensione del lavoro autonomo italiano soffre di una contraddizione: in diversi casi, più che di una scelta individuale si tratta di un ripiego rispetto a lavori precedenti, se non di un rapporto di subordinazione mascherato da lavoro flessibile.
Lo ha messo in evidenza anche un report dell'Efip (European forum of independent professionals), un'associazione che riunisce i lavoratori indipendenti in Europa. In Italia, il paese con il più alto numero di freelance d'Europa, c'è il rischio di sconfinare in rapporti di para-subordinazione che violano la natura stessa del lavoro autonomo: dai tanti clienti si passa a un cliente unico, magari più esigente e invasivo di un datore di lavoro. «Molti freelancer corrono il rischio di uno status di “parasubordinazione” - si legge nel report – Cioè sono dei “quasi dipendenti”, soprattutto se dipendono su un singolo committente per il lavoro e non hanno le caratteristiche dell'imprenditore».
Senza contare la spinta al ribasso nelle retribuzioni: come spiega ancora Faini (Smart), c'è chi si trova costretto ad accettare rapporti lavorativi con pagamenti minimi e senza tutele pur di mantenere una fonte di entrate. Una dinamica che si intravvede in filigrana al graduale incremento di freelance dai 50 ai 64 anni: proprio una delle fasce anagrafiche più colpite dalla crisi ha visto i suoi lavoratori autonomi crescere di quasi 200mila unità in meno di 10 anni (a circa 1,1 milioni nel 2015 dalle 945mila unità del 2006), in controtendenza rispetto al calo generale di quasi 300mila unità nello stesso periodo.
La flessibilità paga. Poco
Del resto la categoria è così varia che è difficile stabilire un livello medio di retribuzione, anche perché l'etichetta stessa si allarga da posizioni semi-manageriali ai rapporti di (quasi) subordinazione già descritti. Qualche numero, però, emerge. In uno dei settori più rappresentati, quello giornalistico-editoriale, le retribuzioni medie possono scendere regolarmente sotto i 1000 euro al mese. Un rapporto della associazione Lsdi (Libertà di stampa diritto di informazione) ha evidenziato che, nel 2015, i giornalisti freelance guadagnano un quinto dei colleghi dipendenti e dichiarano in otto casi su 10 un reddito inferiore ai 10mila euro annui (media di 11.241 euro l'anno).
Nel mondo dei cosiddetti lavori creativi e delle tecnologie, l'asticella non si alza di troppo. Il portale Crebs, specializzato in offerte di lavori per freelance, ha rilevato i salari medi annui di professionisti di varia anzianità in alcune delle professioni più frequentate dai lavoratori autonomi, su un campione di circa 3mila professionisti. Il risultato? Se per le risorse di livello senior le retribuzioni salgono sopra i 50mila euro lordi l'anno, per quelle junior il quadro si fa meno accattivante: un copywriter guadagna dai 12 ai 21mila euro l'anno, un social media manager dai 13.500 ai 22mila euro l'anno, un graphic designer dai 14mila ai 22.600 euro l'anno, un web designer dai 15mila ai 23mila euro l'anno.
Numeri che non sfigurano nel mercato del lavoro giovanile, se si considera che la busta paga di un neolaureato a cinque anni dal titolo oscilla tra i 1.242 euro del Sud e i 1.480 euro del Nord (dati Almalaurea). Ma comunque inferiori rispetto alla media del lavoro dipendente, sopratutto nelle regioni più popolose: in Lombardia, stando ai dati JobPricing, un giovane assunto con contratto guadagna poco meno di 30mila euro l'anno.
© Riproduzione riservata