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Se la vittoria di Renzi alle primarie non apre la porta di Palazzo Chigi

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L'Analisi|il focus

Se la vittoria di Renzi alle primarie non apre la porta di Palazzo Chigi

Ma è una vittoria di Renzi o di Pirro? Era questa la domanda che girava con più frequenza nei commenti politici dopo i risultati delle primarie nei circoli in cui c’è stata una netta riconferma per l’ex premier fiorentino. Il senso dell’interrogativo lo spiegava D’Alema con una frase secca: «Vincere nel Pd per lui non è un problema, il problema è che perde nel Paese». In sostanza, la vittoria tra i sostenitori di centro-sinistra sarebbe un risultato debole perché è solo la premessa di una sconfitta tra gli italiani quando si andrà alle elezioni. L’ex ministro degli Esteri parlava anche di una sorta di mutazione genetica del partito diventato ormai la casa dei «seguaci di Renzi» ma, al di là di questa osservazione, la questione politica che lui mette sul tavolo c’è. E certo non può sfuggirgli perché è la storia della sinistra da almeno 20 anni che ha segnato anche la sua “carriera” di politico: l’incapacità di essere maggioranza nel Paese.

Si ricorda che su questa difficoltà degli ex Pci a conquistare il governo attraverso i voti, D’Alema pronunciò una delle sue frasi più citate: siamo figli di un dio minore, il nostro destino - disse - è servire il Paese, le alleanze. Era il 14 ottobre del ’98, una settimana dopo diventò premier ma dopo due anni si dimise a causa di una sconfitta alle amministrative. A distanza di anni e di leader bruciati, la sinistra è ancora alle prese con questo dilemma: come arrivare a Palazzo Chigi passando per le urne. È evidente che è questa la sfida di Renzi arrivato, anche lui, a governare senza legittimazione popolare.

Fino al referendum, però, la peculiarità del leader fiorentino era stata proprio la capacità che aveva mostrato di saper allargare il campo stretto del Pd. Alle europee del 2014 era andato al di là delle colonne d’Ercole del 25%, oltre i confini delle Regioni rosse e dei centri storici cittadini. Questo è stata la sua novità e la sua “rottura” che gli ha consentito un potere assai esteso nel partito e nel governo. Il “no” referendario, poi, lo ha riportato al passato, a quella tradizione dei leader di sinistra che non sono stati capaci di intercettare gli umori profondi della società. Tra l’altro, la sconfitta di dicembre e poi la sentenza della Consulta, hanno travolto anche l’impianto di una legge elettorale maggioritaria ributtandolo nella logica del proporzionale dove riappare la profezia dalemiana: quell’essere figli di un dio minore, al servizio delle alleanze per formare un governo. Il tutto aggravato da un’altra costante della storia di sinistra, l’inclinazione a dividersi come è accaduto con la scissione di Speranza e Bersani che complica l’approdo a Palazzo Chigi.

Se insomma ieri si polemizzava su presunte irregolarità del voto e se già ci si preoccupava sulla prossima partecipazione ai gazebo – il 30 aprile – il tema vero è se le primarie saranno – come è stato per Veltroni e per Bersani – una chiave che non apre la porta di Palazzo Chigi. E che, con il proporzionale, forse nemmeno daranno la golden share al Pd. La maggioranza degli iscritti ne è consapevole ma è consapevole pure che Renzi - oggi - è l’unico su cui scommettere ancora. Seguaci, li chiama D’Alema, ma seguaci per assenza di alternative.

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