«Aziende, assumete i cinquantenni, la produttività ne avrà vantaggi». Lo diceva Ursula von der Leyen, ministro del Lavoro tedesco fino al 2013 e ora alla Difesa. Come altre volte, la Germania ha affrontato in anticipo i temi strutturali del mercato del lavoro che, poi, si presentano anche in Italia.
E oggi il paradosso italiano dei cinquantenni, i più licenziati, ma anche i più occupati, riporta in auge le parole del ministro tedesco. Da noi, come spiega l’Istat, «al netto dell’effetto della componente demografica, l’occupazione è in crescita su base annua in tutte le classi di età: +0,8% tra i 15-24enni, +1,0% tra i 35-49enni e +3,0% tra i 50-64enni»: sono questi ultimi a fare la differenza.
Pesa l’impatto della riforma Fornero che ha allungato l’età pensionabile e ha protratto il periodo di lavoro di chi altrimenti sarebbe uscito. Ma pesa anche la tendenza demografica destinata a far restare l’Italia il secondo paese più vecchio al mondo. Tra 2007 e 2017 almeno una dozzina di milioni di italiani sono passati dalle coorti tra 25-40 anni a quella dei 40-55 senza che siano stati “rimpiazzati” da nuove generazioni. È il segnale dello spostamento irreversibile dell’età media che è già di 44,9 anni: entro il 2030 il rapporto tra gli ultra 85enni e la popolazione generale passerà da uno a 50 a uno a 20.
Il fenomeno di revival del lavoro over 50 non è ancora un vero boom, ma è un indizio. E diventa l’occasione per affrontare il tema delle competenze: se è vero che il cinquantenne garantisce la conoscenza dei “trucchi” del mestiere, la continuità nella cultura aziendale, la capacità di tenuta dello stress grazie all’esperienza è vero anche che un giovane ha maggiore flessibilità mentale e più attitudine ai nuovi paradigmi tecnologici che possono rivelarsi preziosi nel momento in cui l’economia sta orientando i suoi passi nella quarta rivoluzione tecnologica. Una delle recessioni più brutali della storia economica ha colpito le generazioni in modo anomalo e i cinquantenni espulsi per primi dal mercato ora trovano il modo di rientrarvi; per i giovani ciò ha significato un tempo di attesa prolungato e frustrante.
Una guerra tra generazioni non è mai un bene anche se l’andamento demografico prospetta il rischio di una collisione sociale. Semmai è importante declinare il tema della competenza proprio con il lavoro dei giovani. Questo argomento interroga l’intero sistema formativo, ancora lontano dal lavoro reale, ma interroga anche l’impresa se il ricorso a competenze consolidate significasse solo restare fermi a modelli produttivi non più in linea con le spinte della tecnologia e quindi destinati a soccombere.
Che siano necessarie forme di incentivazione e di alleggerimento del costo del lavoro per l’impiego delle nuove generazioni è un fatto, così come lo è la necessità di trovare forme di finanziamento per l’acquisizione delle competenze. Forse dopo la spallata del jobs act per la modernizzazione delle regole è arrivato il tempo di leggere il lavoro come “contenuto”. Guardato con queste lenti diventerebbe esperienza da trasmettere tra le generazioni, una bella sfida per una nuova stagione di riformismo.
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