La ripresa c’è. È «solida e ampia», ha detto il presidente della Bce Mario Draghi, mentre nel 2013 era «fragile e diseguale». Un tempo, sarebbe stato immediato aspettarsi anche un aumento dell’inflazione. Questa volta non è così. Malgrado la massa enorme di liquidità offerta dalla politica economica ultraespansiva.
Mai come in questa conferenza stampa della Bce sono apparsi lontani il versante reale e quello monetario dell’economia di Eurolandia. Il Pil, ha spiegato Draghi, aumenta a un ritmo medio dello 0,4% trimestrale dal 2013, con una dispersione tra i vari paesi ai minimi storici. I sondaggi sul livello dell’attività (i Pmi e l’Economic sentiment) sono ai massimi dal 2011, il tasso di disoccupazione è ai minimi dal 2009, anche se è ancora al 9,5% ed è quindi in parte strutturale mentre in tre anni e mezzo sono stati creati in Eurolandia oltre cinque milioni di posti di lavoro, «virtualmente» compensando tutta l’occupazione cancellata durante la lunga fase di crisi. Bene.
Non c’è alcun segnale però che tutto questo si stia trasformando in un’accelerazione dei prezzi. A marzo, ha detto Draghi, l’inflazione è calata più delle aspettative, e hanno frenato i prezzi di tutte le principali componenti, mentre l’inflazione sottostante resta debole. Le prospettive di breve termine sono state quindi riviste al ribasso. Non si vedono inoltre grandi pressioni sui prezzi al consumo in arrivo dal versante produttivo: ci sono segnali incerti di un rialzo nei prezzi alla produzione e qualche aumento nella parte iniziale della catena dei prezzi. Le retribuzioni hanno leggermente accelerato partendo però da livelli molto lenti, ma «le prospettive per la crescita dei salari restano incerte». Non c’è nulla che faccia pensare però a un aumento auto-sostenuto dell’inflazione che possa convergere verso l’obiettivo del 2% in tutta Eurolandia.
È un fatto nuovo, per l’Unione monetaria. In passato era quasi immediato un rialzo i tassi ai primi segnali di rafforzamento della crescita. Oggi invece la Bce continua a scrivere che è necessario un livello molto elevato di stimolo monetario, e si comporta di conseguenza.
Qualcosa non torna. Ragionando secondo schemi evidentemente sempre meno utili - la Fed, però, li usa ancora - la crisi dovrebbe aver abbassato la crescita potenziale, quella realizzabile senza inflazione. Allo 0,4% medio trimestrale, Eurolandia dovrebbe ormai essere molto vicina a quella soglia, ma c’è un elemento - in questo schema - che non risponde: i salari, malgrado la creazione di cinque milioni di nuovi posti che hanno sicuramente aumentato, ha spiegato Draghi, il reddito disponibile aggregato e quindi i consumi rendendo più solida la ripresa, ma non hanno avuto un impatto sui prezzi.
Non può essere però una sorpresa, in un mondo che vede un forte eccesso dell’offerta di lavoro sulla domanda sia per una (cattiva?) globalizzazione sia per un’accelerazione della tecnologia a cui la scuola non è riuscita a tener dietro.
La bassa inflazione, e persino la deflazione, può allora essere considerata una risposta persino sana - fa aumentare il reddito reale - dell’economia a questo squilibrio. Una reazione incompatibile però con il livello di indebitamento, pubblico e privato, presente nel mondo e in Eurolandia, che richiede almeno un po’ di inflazione, e sicuramente non la deflazione, per essere assorbito.
In questo quadro, lo sforzo della Bce - come quello, concluso, della Fed - va interpretato come un credit easing. I suoi successi vanno cercati nell’accelerazione dei prestiti: la crescita del credito, ha spiegato Draghi, è aumentata di cinque punti percentuali in tre-quattro anni, passando da negativa a positiva, e anche il leverage è migliorato. La fragilità del sistema bancario - che rappresenta una porzione predominante del sistema finanziario di Eurolandia - giustifica però la prosecuzione della politica ultraespansiva. E solo quando la liquidità “uscirà”, per così dire dal sistema bancario i prezzi potranno tornare a salire.
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