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Dossier Più competitività con il welfare aziendale

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    Dossier | N. 8 articoliWelfare aziendale

    Più competitività con il welfare aziendale

    Sono conti che arrivano giù giù, precisi precisi, fino al singolo euro quelli che ogni mese fa Marco Pagano. Adesso, però, c’è qualche linea in più che si può aggiungere, grazie al pacchetto welfare dell’azienda dove lavora, la Art cosmetics di Mozzanica, in provincia di Bergamo, dove Pagano, 37 anni, è un addetto del reparto degli impasti dei rossetti. «La mia è una famiglia monoreddito, ho una moglie e due bimbi di 6 anni per cui devo cercare di ottimizzare il pacchetto retributivo», racconta.

    Con il welfare privato che si sta espandendo a macchia d’olio, quell’anglicismo usato soprattutto per i manager, la cosiddetta compensation, si può estendere a tutti i lavoratori, tanto a quelli delle grandi imprese, storicamente più impegnate su questo fronte, quanto a quelli che lavorano nelle più piccole. Tanto a quelli che hanno scalato le alte gerarchie, quanto a quelli che sono nella larga base della piramide produttiva.

    Le proporzioni sono molto diverse, ma se il manager si ritroverà pagate le rette stellari della scuola dei figli, Pagano potrà comunque calcolare che con la prima tranche di febbraio di 450 euro del suo premio per cui ha scelto l’opzione welfare, può pagare una parte dell’iscrizione e della mensa della scuola dei suoi due figli. Ai 450 euro, poi, «va aggiunto un ulteriore 10% che l’azienda attribuisce come pacchetto aggiuntivo», spiega, per via del “risparmio” consentito dalla riduzione delle tasse. Il resto delle spese viene messo in dichiarazione dei redditi in modo da poter usufruire delle detrazioni. In giugno dovrebbe poi arrivare una seconda tranche del premio legata ai risultati. Nel personale bilancio di Pagano si trasformerà in buoni spesa per il supermercato e buoni carburante con cui «coprirò alcune spese vive». Nella visione di Marco Sesana, country manager e ceo di Generali Italia che ha ideato un vero e proprio misuratore, il Welfare index, «il welfare supera la sola logica economica per comprendere e dare risposte in chiave “socio-economica”. Con il welfare aziendale, alla paga al dipendente si sostituisce un rapporto con la persona che asseconda necessità e desideri in varie fasi della vita». L’ottimizzazione di tutte le voci e l’opzione welfare aiutano. Aiutano in casa, ma anche nelle imprese.

    Qualche numero aiuta a capire meglio. Secondo il Welfare index di Generali che per l’edizione del 2017 ha sentito un campione di 3.422 Pmi, in questa fase di sviluppo del nuovo welfare aziendale, in un contesto normativo che si è consolidato da pochi mesi, i primi segnali dell’impatto sul lavoro dicono che tra le aziende che hanno attuato iniziative in almeno 6 aree, il 71% registra risultati positivi nella soddisfazione dei lavoratori e nel clima aziendale, il 69% nella fidelizzazione, la stessa quota nell’immagine dell’azienda e il 56% nella produttività del lavoro. Il vicepresidente e presidente piccola industria di Confindustria, Alberto Baban, spiega che «la competizione è cambiata e cambierà in modo drastico in futuro. Proprio per questo la tenuta della produttività è fondamentale e perché vi sia bisogna essere tutti complici. Il nostro è un paese molto particolare dove sembra che vi siano molte cose latenti. Come apri una porticina si scoprono potenzialità inespresse». Ad aprire la porticina, nel caso del welfare, sono stati senza dubbio gli sgravi fiscali. «C’è sicuramente un tema di convenienza che ha fatto emergere questo inglesismo, welfare. Ma va notato che tutti gli attori stanno spingendo nella stessa direzione e le imprese non sono state colte impreparate. Sono contente perché possono offrire al lavoratore qualcosa di più a parità di costi», continua Baban. Che gli attori remino tutti nella stessa direzione lo conferma anche il segretario nazionale della Cisl, Gigi Petteni: «È un tema che abbiamo posto da tempo e oggi, al di là delle bandierine della contrattazione di primo e secondo livello, emerge quanto risponda alle esigenze di chi lavora. Le stesse aziende, poi, ne hanno colto le possibilità. Dai luoghi di lavoro sta venendo avanti una nuova conciliazione: non più solo tra tempi di vita e di lavoro ma anche tra la competitività delle imprese e il benessere delle persone».

    Senza pretendere di risolvere il quesito se sia nato prima l’uovo o la gallina, «le convenienze hanno sicuramente dato impulso al welfare - interpreta Baban -, ma questo è accaduto perché vi è sempre stata una cultura basata su una forte interazione tra comunità dei lavoratori e imprese. Lo dicono i contratti aziendali ma lo dice anche la contrattazione nazionale e l’emersione, oggi, di un modello contrattuale basato sul welfare è possibile proprio per questo. Del resto il sistema del welfare privato ha preso una dimensione considerevole in un contesto di mercati stabili».

    Le dimensioni le lasciamo spiegare ancora una volta ai numeri. A partire da quelli del ministero del Lavoro che questo mese ha rilevato che sono oltre 20mila (20.908) i contratti aziendali e territoriali depositati per usufruire della detassazione dei premi di produttività (con un’imposta al 10%)a partire dal 2015 e per quanto riguarda le misure previste dagli accordi depositati, 4.641 prevedono delle misure di welfare aziendale, esenti da imposizione. Il rapporto è di uno a cinque e l’impressione di Bruno Busacca, capo della segreteria tecnica del ministero del Lavoro, è che «il welfare aziendale stia prendendo piede grazie anche all’incentivazione fiscale, ulteriore driver di un processo che sta andando avanti. Storicamente le grandi imprese hanno intrecciato la loro storia con piani di welfare imponenti, ma oggi la vera frontiera sono le piccole e medie imprese». Dalla contrattazione di secondo livello arriva poi la garanzia di saper leggere i bisogni specifici di quei lavoratori, di quell’azienda o di quel territorio. «Sulle rilevazioni dei dati - osserva Busacca -siamo ancora nella fase iniziale ma il precipitato è positivo e dai primi dati sembra quasi che vi sia una contaminazione di buone pratiche sul territorio». I contratti di secondo livello che non si limitano all’erogazione monetaria ma che incrociano esigenze e servizi «vanno sostenuti e incoraggiati dalla norma fiscale - dice Busacca - ma hanno anche bisogno di un consenso sociale diffuso perché stiamo parlando di un meccanismo win win con vantaggi per i lavoratori e per le imprese». Anche per questo forse varrebbe la pena lavorare per aumentare la convenienza per imprese e lavoratori.

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