Doveva essere il giorno della presentazione di un testo base sulla legge elettorale in commissione Affari costituzionali della Camera, e invece il Pd, in questo d’accordo con Forza Italia, ha chiesto il rinvio di una settimana, per dare il tempo al neoeletto segretario Matteo Renzi di insediarsi (domenica si riunirà la prima assemblea della seconda era Renzi e saranno decisi i nuovi organigrammi del partito). In queste ore è comunque arrivata un’apertura di Largo del Nazareno su un sistema che ricalca il sistema tedesco tanto caro a Silvio Berlusconi: 50% collegi uninominali, 50% proporzionale con soglia di sbarramento al 5%. Il capogruppo dem a Montecitorio Ettore Rosato sta lavorando in questa direzione e il tentativo è descritto come serio in casa dem.
Le strade di Renzi e del gruppo dirigente del Pd per tentare di armonizzare i due sistemi lasciati in piedi dalla Consulta alla Camera e al Senato, come auspicato a più riprese dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, restano in ogni caso almeno due: quella dell’accordo con Fi sul un simil-tedesco o quella dell’accordo con il M5S sulla strada dell’estensione al Senato dell’Italicum rimasto alla Camera, ossia premio alla lista che superi il 40% con possibilità di abbassare tale soglia al 37 o al 35% come proposto dal vicepresidente grillino della Camera Luigi Di Maio. E probabilmente su queste due ipotesi si incentrerà la proposta che Renzi lancerà ai partiti dal palco della nuova assemblea democratica domenica prossima.
Tuttavia è lecito chiedersi con quanta convinzione Renzi e il Pd stiano dando seguito agli appelli del Capo dello Stato. Il leader del Pd è non da ora convinto che non ci siano le condizioni politiche per fare una seria riforma elettorale in questo Parlamento, con sempre nuovi gruppi (ultimo quello nato dalla scissione del Pd, i bersaniani di Mdp) in contrasto tra di loro. Tanto più che sia il forno grillino (Pd più M5S) sia il forno forzista (Pd più Forza Italia) possono funzionare alla Camera, ma sono destinati a infrangersi sui numeri risicati del Senato. Dove i piccoli partiti, dagli alfaniani di Ap ai bersaniani di Mdp, sono decisivi e ben intenzionati a vendere cara la pelle pur di non far passare una legge elettorale che li penalizzi o addirittura li faccia scomparire: nel loro mirino finirebbe in primis ogni tentativo di armonizzare al rialzo le soglie di sbarramento (3% alla Camera e 8% al Senato per i partiti che non si coalizzano). Numeri alla mano, una riforma della legge elettorale potrebbe passare in Senato solo con l’accordo delle tre grandi forze politiche, Pd M5S e Fi, o quantomeno con la non ostilità di una delle due forze di opposizione.
Ci sono poi altri due elementi politici importanti che fanno prevedere che il tentativo di riformare i due Consultellum di Camera e Senato non avrà vita né facile né breve. Da una parte a Renzi il sistema attuale, a condizioni date, va benissimo, e non ha alcun interesse a virare verso un sistema più proporzionale: il premio alla lista che superi il 40% previsto alla Camera permette al Pd (e anche al M5S) di condurre una campagna elettorale in solitaria, con l’obiettivo pur sempre credibile di raggiungere l’agognata quota. Mentre al Senato il sistema di soglie che penalizza le piccole formazioni (8% come si diceva per i partiti che corrono da soli e 3% per quelli che si coalizzano purché la coalizione superi nel suo complesso il 20%) ha una effetto maggioritario in ingresso, dal momento che entrerebbero a Palazzo Madama solo quattro partiti: Pd, M5s, Fi e la Lega anche se ridimensionata dalla soglia che scatta a livello regionale. Renzi eliminerebbe alla radice il problema delle alleanze di cui tanto di discute a sinistra e terrebbe fuori dal Senato gli scissionisti bersaniani, il che non è l'ultimo dei suoi obiettivi.
L'altro elemento che oggettivamente rallenterà la corsa della riforma della legge elettorale è l'atteggiamento di Forza Italia e del suo leader Berlusconi, che non ha alcuna fretta dal momento che attende la sentenza di Strasburgo sulla sua candidabilità per decidere lo schema di gioco con cui presentarsi alle prossime elezioni. E la sentenza non arriverà prima dell’autunno. Il timing immaginato dal capogruppo azzurro alla Camera Renato Brunetta, che pure ha salutato favorevolmente l'apertura del Pd al modello tedesco, la dice lunga: «Penso che questa settimana e la prossima serviranno per i contatti in Commissione tra i gruppi parlamentari, per poi arrivare ad un testo base da portare in Aula. Il tutto per avere una legge elettorale alla Camera prima della pausa estiva, per poi passarla al Senato e votare regolarmente tra febbraio e marzo del 2018».
Stando così le cose, a che cosa mira l’attivismo del Pd sulla legge elettorale? A togliere ogni alibi e a dimostrare che se non si riesce a fare una legge non è colpa dei democratici ma della «palude» parlamentare. A dimostrare insomma che, se anche si riuscisse a trovare la quadra alla Camera, l’iter di fermerebbe in Senato. È per questo che lo stesso Renzi non ci crede più di tanto, e il suo sguardo è rivolto altrove: da una parte all’Europa e alla sua riforma nell’era (sperabilmente) di Macron all’Eliseo, dall'altra al governo Gentiloni. Che dal punto di vista del leader del Pd deve ora marcare la sua azioni in senso più riformista per non rischiare di rimanere impiccati in piena campagna elettorale e una legge di bilancio pesante e punitiva per i contribuenti. Risolvere il caso Alitalia con un non meglio precisato «rilancio» della compagnia, contrattare con Bruxelles margini di flessibilità sufficienti a tagliare cuneo fiscale e Irpef con la manovra finanziaria d’autunno: queste le priorità di Renzi. Che intanto, forte della legittimazione ricevuta con le primarie del 30 aprile, manda un messaggio al governo Gentiloni: ora l’agenda, da qui a quando si voterà, la detta il Pd e non più i ministri «tecnici» (leggasi Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda).
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