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Il rischio politico italiano sull’Europa

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politica 2.0

Il rischio politico italiano sull’Europa

Quello che ora ci separa anni luce dalla Francia non è solo il tipo di legge elettorale ma una legge elettorale qualsiasi. Al momento – come la scorsa settimana ha certificato il richiamo di Sergio Mattarella sull’urgenza di scrivere nuove regole – l’Italia non ha un sistema di voto idoneo per andare a elezioni. E dunque prima ancora di decidere qual è il Macron nostrano e se mai ci sarà, il punto è che non siamo neppure “abilitati” per le urne. Insomma, se la Francia svolta verso l’Europa, l’Italia resta in uno stallo politico/istituzionale guardato con preoccupazione proprio da un’Unione rafforzata dopo l’esito di Parigi. Ieri sono andate in onda prove di dialogo tra Pd e 5 Stelle ma andranno verificate nei prossimi giorni in Parlamento, intanto resta uno “spread” politico che ci divide da Paesi come la Francia.

E, dunque, risulta più attuale quell’appello del Colle a pochi giorni dalle primarie Pd del 30 aprile che era diretto ai partiti e al Pd di Renzi in particolare, forza di maggioranza relativa in Parlamento. Nuove norme o comunque un’armonizzazione dei sistemi elettorali usciti dalle sentenze della Consulta: senza questo passo Mattarella ha fatto capire che non scioglierà le Camere e che con gli attuali sistemi si potrebbe produrre un tilt istituzionale. Un rischio politico che si aggiunge a quello finanziario che invece avrebbe bisogno di spalle istituzionali larghe e solide per essere sostenuto.

Il tema non è solo il rapporto tra Renzi e Gentiloni, le sorti e la durata di questo Governo, ma se i partiti riusciranno a scrivere una legge elettorale che garantisca la formazione di un prossimo Esecutivo. Qui sta il nodo. In questo sta l’abisso italiano rispetto alla svolta francese di ieri. Prima ancora che trarre le conclusioni sul populismo italiano dopo la sconfitta della Le Pen e sulla crisi dei partiti tradizionali scalzati da un “politico per caso” come Macron, l’Italia sta un passo ancora indietro rispetto alla normale vita istituzionale. È qui che Mattarella vuole farsi ascoltare, non può intervenire sul merito della riforma ma almeno sull’omogeneità dei sistemi di Camera e Senato che oggi non c’è. E su questo punto rimane fermo. Lui che da domenica è in visita di Stato in Argentina, non ha commentato ufficialmente le parole di Renzi che ha risposto a quell’invito dicendo di non voler fare «il capro espiatorio sulla legge elettorale». In pratica non ha raccolto l’appello “presidenziale” di creare le condizioni per un accordo ma ha rivendicato la scelta delle mosse da fare, inclusa quella di non fare nulla e aspettare gli altri. Tattica, per questo l’entourage del Colle non si è affrettato a trarre conclusioni o a commentare l’uscita del segretario. Anche perché ieri qualcosa sembrava muoversi tra Pd e 5 Stelle.

È vero che continua a serpeggiare nei partiti il piano B, ossia l’idea di poter risolvere con un decreto, ma chi al Colle si occupa di questioni istituzionali e giuridiche riflette sul fatto che uno strumento del genere può contenere norme minime e che comunque occorrerebbe un accordo per poi approvarlo in Parlamento. Uno sbocco che, però, confermerebbe il rischio politico italiano sull’Ue.

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