L’immigrazione è «una questione cruciale nella storia del mondo e non può essere ristretta in orizzonti temporali troppo brevi. Non va né subita né inseguita, ma governata. Tenendo conto dei diritti di chi fugge e del sentimento del nostro popolo». L’indirizzo politico è stato presentato in Parlamento dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, il 27 marzo scorso. E sembra ricalcare, per molti aspetti, le conclusioni del G7 .
Certo Minniti è lontano anni luce dalla politica dei muri contro i migranti cara a Donald Trump. Ma l’approccio italiano sta emergendo in Europa. Supera la contrapposizione tra l’accoglienza indiscriminata e il contrasto intollerante verso i migranti. Spinge i Comuni a un impegno diffuso e allargato nell’ospitalità dei rifugiati. Ma prevede anche la nascita dei centri per i rimpatri in ogni regione. Si muove - finora con la piena condivisione di Bruxelles - per stabilire una linea di dialogo e di azione non solo con la Libia, terra del principale transito, ma anche con gli altri stati ai confini del Nord Africa.
E, soprattutto, progetta una serie di misure d’intesa con l’Unione europea per contenere e ridimensionare le partenze dai Paesi d’origine. Tutti temi riconoscibili nella bozza di comunicato di Taormina, che parla di «partnership per aiutare i Paesi a creare nei loro confini ne condizioni che risolvano le cause della migrazione».
Certo, la dichiarazione del G7 ha una doppia faccia: sostiene «i diritti umani dei migranti e rifugiati» ma poi cede agli Stati Uniti lo spazio del principio del controllo dei confini e i «chiari limiti ai livelli netti di immigrazione». In realtà tutti i leader politici sanno che non possono accettare un flusso interminabile di immigrati ma non lo possono neanche determinare a tavolino. E la linea italiana, dove l’equilibrio tra integrazione e sicurezza non è un compromesso ma una scelta politica, sembra la scelta più lucida. Davanti a un dramma umanitario che neanche le grandi potenze mondiali possono risolvere da sole.
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