Multinazionali e start-up: è il mix che alimenta il successo del distretto biomedicale di Mirandola a 55 anni dal primo esperimento, Miraset, azienda avviata in un garage da Mario Veronesi, il padre geniale del cluster leader in Europa (100 imprese, 5mila occupati e un miliardo di euro di giro d’affari) scomparso la settimana scorsa. La sua ricetta imprenditoriale resta di straordinaria attualità: fare ricerca e inventare prodotti - «attività in cui noi emiliani siamo imbattibili», diceva - lasciando poi ai colossi internazionali lo sviluppo sui mercati, «dove servono organizzazione e capitali, di cui noi italiani siamo carenti», aggiungeva Veronesi.
Formula che ha permesso al polo modenese di attrarre multinazionali come Baxter, Fresenius, Cyberonics, Medtronic, che si sono insediate rilevando start-up e imprese locali di dispositivi medici e investendo poi su efficienza di processo e sinergie commerciali (o alleandosi con realtà del territorio, come nel recente caso della partnership da 10 milioni di dollari tra la start-up mirandolese Aferetica e l’americana Cytosorbents Corporation).
Inoltre il territorio continua ad alimentare piccole realtà embrionali innovative (sono 55 le start-up biomedicali monitorate in regione da Assobiomedica), che stanno trasformando il distretto nato con la produzione di dispositivi monouso per dialisi in un grande laboratorio di ricerca e sviluppo dove sperimentare applicazioni trasversali riguardanti pharma, nanotech, energia. E che ruota attorno al tecnopolo, il Tpm, parco scientifico e tecnologico di Mirandola diventato il driver della rinascita post sisma del distretto, cuore di un ecosistema su cui convergono anche la Fondazione Its per la formazione specialistica, un incubatore e un master universitario sul biomedicale.
La flessione dell’export del distretto (-4,6% nel 2016 secondo il Monitor Intesa Sanpaolo, con un accentuarsi del calo nei primi mesi del 2017, in base a quanto rilevato dall’Istat) è imputata a operazioni intercompany delle multinazionali, che oggi controllano giro d’affari ed esportazioni di Mirandola, non a incrinature nella salute del comparto, assicura Filcams Cgil, che sta registrando un incremento sia nell’utilizzo degli impianti sia nell’occupazione. Preoccupano invece le gare sul prezzo e non sulla qualità imposte da Consip per il sistema sanitario, che a medio-lungo termine rischiano di compromettere gli investimenti innovativi.
Il tecnopolo di Mirandola - una sorta di Fraunhofer della biomedical valley - si prepara intanto al salto dimensionale, chiusi i primi due anni di vita con un centinaio di aziende coinvolte nelle attività laboratoriali e 16 ricercatori in organico, con competenze che spaziano dalla chimica all’ingegneria meccanica, dalla medicina all’Ict, contaminazione che è il vero valore aggiunto offerto alle Pmi del distretto: «Abbiamo raggiunto il pareggio di bilancio e ora possiamo lavorare al piano di espansione», anticipa Aldo Tomasi, direttore del Tpm, che fa da capofila a tutta la filiera “Biomedtech”, all’interno della rete di sette “Clust-ER” in cui la Regione ha riorganizzato la rete di ricerca industriale, mettendo a sistema 66 laboratori pubblico-privati, 11 centri della Rete Alta tecnologia e 24 imprese.
«Non basta fare R&S, bisogna investire sull’education per crescere», afferma Giuliana Gavioli, direttore Quality management di B.Braun Avitum Italia (costola del big tedesco del biomedicale) e presidente dell’Its Nuove Tecnologie per la Vita di Mirandola. Istituto che in due anni di vita ha sfornato una cinquantina di diplomati, tutti occupati. Ora è partito il bando per un Ifts (formazione post diploma di un anno), ma non basta per sostenere la domanda di nuove competenze. «Come B.Braun prevediamo una crescita del fatturato superiore al 5% anche per il 2017 nel distretto e dopo i 14 milioni di euro investiti e le 100 assunzioni negli ultimi cinque anni (dal sisma del 2012) abbiamo in cantiere un nuovo ampliamento produttivo», conclude Gavioli.
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