Il 30 maggio 2014, nelle sue considerazioni finali, Ignazio Visco auspicava una nuova stagione di «aggregazioni fondate su solidi presupposti economici e su logiche di mercato». Un messaggio che da allora sarebbe diventato un mantra in ogni uscita pubblica del governatore di Banca d’Italia.
Ma quell’anno, ad ascoltarlo al primo piano di Palazzo Koch, in sala c’erano i vertici di Popolare Etruria, da poche ore oggetto di un’offerta pubblica di acquisto da parte di Popolare Vicenza. Da ieri nè l’una nè l’altra esistono più. Etruria ormai da qualche mese è finita tra le braccia di Ubi, da ieri Popolare di Vicenza è diventata parte di Intesa Sanpaolo, insieme alla rivale di sempre Veneto Banca (con cui, in quello stesso 2014, proprio la Vigilanza aveva accarezzato l’idea di un destino comune). In una modalità senz’altro più brutale e onerosa di quanto si auspicava allora, la nuova stagione di aggregazioni è partita. E senz’altro non può dirsi conclusa. Anzi: il deal concluso nel week end da Carlo Messina con il Tesoro è di una magnitudo tale da scuotere il mercato italiano del credito, protagonista di una polarizzazione molto più pronunciata di quanto si riteneva fino a pochi mesi fa. Se è vero, come ad aprile scorso dichiarava a Il Sole il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, che «entro la fine di quest’anno nel nostro Paese non resterà più di una centinaio tra istituti e gruppi bancari», l’acquisizione delle due ex popolari ha impresso un’accelerazione al processo di razionalizzazione.
Il ciclone sul Nord-Est
Intesa Sanpaolo, che per volumi di attivi (725 miliardi) era già leader in Italia, si è comprata due banche che, unite, avrebbero composto l’ottavo player domestico, con 62 miliardi al 31 dicembre scorso. Ora a livello nazionale Ca’ de Sass ha rafforzato il primato, conquistandolo anche in un’area strategica come il Veneto e più in generale il Nord-Est, la stessa direzione a cui puntava l’operazione su Generali accarezzata a inizio anno. Dentro e fuori dalla banca tutti raccontano che non c’è alcun nesso tra i due dossier, ma un dato di fatto c’è: con l’acquisizione dell’altro ieri Carlo Messina senz’altro non ottiene la rete estera che avrebbe portato in dote il Leone, ma in compenso entra a piedi uniti in un territorio e in un sistema di potere di cui Trieste è ancora uno dei baricentri.
L’effetto sul mercato
Dal punto di vista degli sportelli, in Veneto, secondo le elaborazioni di Paola Sabbione, analista di Deutsche Bank, la quota di Intesa Sanpaolo è balzata dal 14% al 25%, grazie a una rete che dalle 408 sole filiali di Intesa è salita ora a quota 744; molte di queste andranno chiuse per rispondere alle richieste di efficientamento poste dalla Dg Comp, ma le masse resteranno in capo alla nuova direzione regionale affidata all’ex UniCredit Gabriele Piccini, dunque la quota di mercato sulla clientela potrà essere salvaguardata. Ma c’è di più: lo spaccato provinciale rivela che nel cuore produttivo dell’area, il vicentino, Intesa quasi triplica la propria presenza, salendo dal 10 al 27% di mercato. Non male, per un’operazione costata appena un euro.
Certo il lavoro che attende la Banca dei Territori guidata da Stefano Barrese è molto, visto che dopo la liquidazione coatta amministrativa servirà anche una transizione altrettanto ordinata di centinaia di migliaia di clienti con le loro attività. A partire dal credito, che fisiologicamente si riduce quando si assottiglia il numero degli interlocutori, a maggior ragione in zone dove le due venete erano sostanzialmente in sovrapposizione: Intesa ha subito messo sul tavolo 5 miliardi a disposizione di nuovi impieghi, ma non sarà una passeggiata. Di mezzo c’è la saluta di un sistema economico trainante per l’Italia, ma anche la possibilità per Intesa di sbaragliare la concorrenza di UniCredit e BancoBpm, scalzate dalle prime due posizioni che occupavano in virtù degli antichi fasti di CariVerona e del Banco Popolare, che proprio a Verona ha sede.
Le contromosse dei rivali
Batteranno un colpo? Può essere. Forse non subito, considerato che in Piazza Gae Aulenti il ceo Jean Pierre Mustier nel piano al 2019 in teoria non ha inserito la crescita per linee esterne, mentre in BancoBpm si è impegnati a dare corpo a un’integrazione scattata appena sei mesi fa. Ma certo l’inattesa sortita di Intesa Sanpaolo, che arriva dopo il consolidamento di Ubi con l’acquisizione delle good banks, cambia le dinamiche e restringe gli spazi potenziali di crescita per tutti: il prossimo a muovere, nelle settimane future, dovrebbe essere l’Agricole Italia, che dall’altro ieri ha un motivo in più per allargare la propria base rilevando - con uno schema che potrebbe meritare qualche ritocco - le filiali di Cassa Cesena, Rimini e San Miniato. Un altro operatore, questa volta a controllo estero, in fase di espansione in un’altra area ricca d’Italia, che però potrebbe aver sottomano qualche altro dossier per proseguire un percorso di crescita motivato anche dalla necessità di accrescere la rete di vendita dei prodotti Amundi, fresca di acquisizione di Pioneer.
Storicamente si è sempre vociferato di un interesse per Carige, mai confermato. Ma certo Genova - alla vigilia di un aumento che vale quattro volte la capitalizzazione di Borsa - è pedina del risiko. A muoversi sempre più secondo una logica aggregativa è anche il mondo delle Bcc, oramai baricentrato su due poli, ovvero Cassa Centrale e Iccrea, gruppo quest’ultimo che forse non a caso si era interessato al dossier veneto. Così come oggetto di ragionamenti, in prospettiva, potrebbe diventarlo Mps: a giorni, come ha confermato, ancora ieri il vice direttore generale di Banca d’Italia, Fabio Panetta, entrerà lo Stato che ne assumerà il controllo. E che dovrà vendere il prima possibile, stando alle indicazioni di Bruxelles: chissà che nella ripolarizzazione in corso anche per Siena sia più facile trovare quell’approdo cercato invano da almeno tre anni.
© Riproduzione riservata