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Governance globale e ruolo dell’Italia

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L'Analisi|nuovi equilibri

Governance globale e ruolo dell’Italia

La politica italiana sembra essere in una condizione di dissonanza cognitiva. Fuori di essa equilibri geo-politici ed assetti economici si stanno frantumando. Il sistema internazionale e quello europeo si stanno muovendo verso una terra incognita. Quella politica, invece, continua a guardare indietro. La discussione riguarda il posizionamento dell’uno o dell’altro leader, dell’uno o dell’altro gruppo. Stiamo assistendo al trionfo del parrocchialismo politico italiano. A cosa serve una politica che non fa i conti con la realtà?

Gli ultimi giorni hanno mostrato come il futuro dell'Italia (così come quello degli altri paesi) dipenda dalle trasformazioni che avvengono al suo esterno. Sia sul piano internazionale che europeo. Guardiamo le prime. La riunione del G20, tenutasi ad Amburgo, ha reso evidente la crisi del modello di “global governance” ideato alla fine degli anni Novanta per gestire la globalizzazione. Di fronte alle insufficienze operative del sistema delle Nazioni Unite (con il loro datato Consiglio di sicurezza), il G20 fu inaugurato come un organismo informale di elaborazione delle politiche globali perché costituito dei paesi economicamente più rilevanti e demograficamente più rappresentativi (oggi quei paesi producono quasi l'85 per cento del Pil mondiale e rappresentano più dei 2/3 della popolazione mondiale). Gestito secondo una logica multilaterale, il G20 è riuscito a creare il consenso a favore di fondamentali politiche, come quelle dell'allargamento dei commerci internazionali o della riduzione dell'inquinamento atmosferico. Politiche, quindi, rese operative dagli organismi formali del sistema delle Nazioni Unite. Naturalmente il G20 non è stato privo di difetti e insufficienze. Tuttavia, grazie alla leadership americana e al sostegno europeo, esso ha contribuito a promuovere l'idea di una globalizzazione che deve essere regolata e inclusiva. Ad Amburgo, e già prima a Taormina, la presidenza Trump ha dichiarato che questa idea appartiene al passato. Quella presidenza non vuole essere “intrappolata” in processi decisionali multilaterali. Vuole discutere bilateralmente ponendo come prioritaria la difesa degli interessi del proprio paese (ovvero del proprio elettorato). Le conseguenze di questo approccio sono evidenti. Segmentazione del commercio internazionale, tensioni doganali, dazi e protezionismo, disincentivi all'innovazione. Si tratta di una trasformazione che è destinata a destabilizzare l'Europa e l'Italia. A meno che queste ultime non rilancino la strategia dell'apertura economica attraverso accordi commerciali differenziati, come quello tra l'Unione europea (Ue) e il Canada (il cosiddetto CETA). Eppure, bizzarri interessi si sono già attivati per bloccare l'approvazione di quell'accordo nel nostro parlamento. Già la decisione (presa a Bruxelles) di fare approvare il CETA dai legislativi dei 27 stati membri dell'Ue è stata del tutto scellerata. Ma ancora più scellerata è la resistenza a quell'accordo portata avanti da parlamentari sovranisti (di destra e di sinistra), oppure dai portavoce (nella maggioranza di governo) di singole lobbies (come la Coldiretti). C'è una politica che vuole ritornare all'Italia autarchica. L'approvazione del CETA è decisiva per neutralizzare questa possibilità, ma anche per mostrare il contributo dell'Italia alla nuova governance globale. E' di questo che occorrerebbe discutere.

Gli ultimi giorni hanno mostrato come stia cambiando anche il modello di governance europea. La riunione, tenutasi a Varsavia poco prima dell'inizio del G20, dei paesi della cosiddetta coalizione dei Tre Mari (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria) con il presidente Trump è l'epitome della trasformazione in corso. Si tratta di paesi, tutti, che fanno parte dell'Ue, alcuni addirittura dell'Eurozona. Eppure hanno chiesto il sostegno del presidente Trump nella loro opposizione a Mosca, ma anche a Bruxelles. Si tratta di un vero e proprio blocco sovranista, che attraversa l'intera Europa centro-orientale e che rivendica una sua piena autonomia decisionale in politiche cruciali (come la politica della sicurezza o la politica migratoria). Era da tempo che l'acqua bolliva. Tuttavia, con l'arrivo di Trump e l'uscita del Regno Unito, l'acqua è trasbordata. La Polonia, che è il nuovo leader di questa coalizione, non lesina denunce all'atteggiamento (definito come “neo-imperialista”) dei paesi occidentali nei confronti di quelli orientali. Dopo quasi tre lustri di integrazione, la distanza tra le due Europe si è accentuata, non ridimensionata. Naturalmente, quei paesi tirano la corda, ma non vogliono spezzarla. Hanno infatti un grande bisogno dei fondi europei di coesione, fondi che (paradossalmente) vengono gestiti dai governi anti-europei per consolidare il loro potere (e quindi la loro critica alle istituzioni europee). Nello stesso tempo, con il successo elettorale di Emmanuel Macron e con il rafforzamento del ruolo di Angela Merkel, la Francia e la Germania hanno rilanciato la loro alleanza. I due leader si comportano come membri di uno stesso governo. La loro alleanza ha cambiato l'agenda dell'Eurozona. Non si discute più di austerità e flessibilità o di ulteriori misure di supervisione fiscale. Ai primi posti dell'agenda europea c'è ora la proposta di un bilancio dell'Eurozona, di un ministro delle finanze dell'Eurozona, di un parlamento dell'Eurozona. Ovvero, in quell'agenda, è entrato il problema della sicurezza europea, tra cui la necessità di andare verso una forza armata da gestire attraverso una cooperazione rafforzata. Come ha sottolineato Angela Merkel, “non possiamo più fare affidamento sugli amici anglo-americani”

Rispetto a questa crescente divaricazione, come si pongono le nostre élite politiche? Il centro-destra non sa cosa dire, il centro-sinistra passa il tempo a polemizzare al suo interno. Per le destre e le sinistre sovraniste il problema non esiste, perché bisogna ritornare prima possibile al vecchio stato nazionale. I 5 Stelle, obbligati a rivedere la loro posizione anti-euro, hanno addirittura trovato un nuovo nemico, il Fiscal Compact, “di cui occorre impedire la ratifica”. Da non credere. Il Fiscal Compact è un trattato internazionale già ratificato dal nostro parlamento nel 2012, ratifica che ha implicato una revisione degli articoli 81, 97, 117 e 119 della costituzione, così da introdurre il principio dell'equilibrio di bilancio. Per di più, quel Trattato è stato messo da tempo a dormire, per via del suo irrealismo. Il problema è piuttosto quello di decidere, entro la fine di quest'anno e da parte dei 27 paesi firmatari, se il Fiscal Compact dovrà essere portato all'interno del Trattato di Lisbona. Se ciò avvenisse, non cambierebbe molto sul piano delle politiche macro-economiche. Il Fiscal Compact fa parte di un complesso di misure (come il Six Pack o il Two Pack), introdotte durante la crisi, che fanno ormai parte del diritto comunitario. Cambierebbe molto, invece, sul piano istituzionale, in quanto ciò rafforzerebbe la logica intergovernativa divenuta predominante nell'Ue. E' di questo che la politica italiana dovrebbe discutere, dividendosi tra chi vuole riformare l'Eurozona e trasformarla in un'organizzazione distinta (seppure interna) all'Ue e chi invece continua ad abbaiare alla luna.

Insomma, di fronte alla trasformazione dei sistemi di governance del mondo e dell'Europa, non si può passare il tempo a discutere (astrattamente) di alleanze e coalizioni. Non se ne può più. In particolare, la politica italiana deve misurarsi con le sfide del cambiamento europeo perché dalla risposta ad esse dipende il nostro futuro. È bene, come sostiene Matteo Renzi nel brano riportato su questo giornale, che l’Italia chieda all’Europa di cambiare (e non solo viceversa). Per fare questo, occorre entrare nella discussione franco-tedesca con un progetto innovativo e con uno stile argomentativo che rifugga da ogni populismo. Allo stesso tempo, però, è bene anche ricordarsi che i nostri argomenti saranno tanto più influenti quanto più saranno sostenuti da un impegno rigoroso ad andare avanti nelle riforme interne. Se l'Europa è la vera linea di divisione politica interna, allora chi sostiene l'integrazione deve farsi carico delle sue conseguenze.

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