Lo scenario è profondamente mutato, complici anche la decarbonizzazione in atto e il crollo del prezzo del petrolio: l’Eni ha anticipato i tempi cambiando modello strategico e implementando un’organizzazione snella e sempre più orizzontale che l’ha portata ad archiviare il vecchio assetto divisionale per diventare una società oil & gas integrata con al centro non solo gli azionisti ma tutti gli stakeholder. Claudio Descalzi, numero uno di Eni, spiega nel forum del Sole 24 Ore la trasformazione radicale che porta la sua firma e guarda già al futuro dove, con un occhio al cuore italiano dell’azienda, intravvede «spazi incredibili» per l’aggregazione di un polo forte della chimica verde. «Abbiamo avuto 60 anni di società, e successivamente un assetto organizzativo divisionale che lavorava indipendentemente sui singoli business. Ora, con la nuova organizzazione - racconta -, abbiamo messo in connessione tutta la società liberando moltissime energie e creando nuovi modelli di sviluppo. Quali? Per esempio, quello che ha collegato Syndial, che si occupa delle bonifiche, alla nuova “gamba” del gruppo che sta lavorando allo sviluppo di progetti sulle energie rinnovabili. Quest’ultima, proprio sfruttando il lavoro della prima, ha trovato una grande opportunità. Finora - spiega l’ad - abbiamo avviato 400 ettari dei 4mila bonificati da Syndial, definito 15 progetti (tutti al Sud tranne uno in Liguria) e investiremo nei prossimi 2-3 anni per realizzare già nel 2018 fino a 220 megawatt di rinnovabili. E lo stesso stiamo facendo in Africa».
Partiamo da Versalis. Su questo fronte, cercavate un partner e poi quel percorso si è stoppato. Che futuro immagina per la chimica? Ci sarà spazio per un’Ipo come lei ventilava qualche giorno fa, in Parlamento, anche per la nuova Eni Gas e Luce?
Il percorso della chimica sembra cambiato, ma in realtà è mutato solo il nostro approccio che è di mantenerne il controllo fino alla possibilità di un’Ipo. In questi tre anni i miei colleghi sono stati eccezionali perché la chimica aveva perso per vent’anni, ha lasciato sul terreno 7 miliardi nel giro di otto anni fino al 2014. C’era quindi uno sforzo da fare e non ero sicuro di riuscire a farlo da solo perché raddrizzare una performance così negativa non era semplice anche se credevo e credo molto nel nostro team e nelle strategie. Abbiamo dovuto accelerarle e a un certo punto si è anche pensato di prendere un partner che avesse competenze forti e ci allargasse il mercato.
E perché avete cambiato i piani?
Non siamo riusciti a trovare un partner ma, nel frattempo, mentre ci provavamo, c’è stata una grossa reazione. Abbiamo chiuso le capacità che perdevano di più e soprattutto abbiamo cambiato la linea di prodotti perché fare solo quelli intermedi ci teneva troppo legati al prezzo del petrolio. Mentre lo spostamento dell’attività sul penultimo step, quello che consegna il prodotto finale a chi fa poi il manufacturing dello stesso, ci ha allontanati dalle oscillazioni sul prezzo. Così siamo riusciti a produrre il 33% di specialties e soprattutto a invertire il ciclo.
In che senso?
Solitamente chi è abituato a lavorare con i prodotti intermedi non ha una visibilità completa sul mercato finale. Quando, invece, ci si muove sulle specialties devi lavorare con il cliente. L’abbiamo fatto non solo a casa sua ma riproducendo impianti pilota simili a quelli dei clienti nei nostri stabilimenti. In questo modo, abbiamo riprodotto il ciclo e il cliente ha apprezzato l’investimento, che per noi rappresenta un costo ma che gli consente di vedere la qualità della nostra produzione. Su questo, quindi, abbiamo fatto il salto con la nostra ricerca scientifica che lavora con il cliente e dà alla catena operativa l’input per fare un nuovo prodotto. In questo modo, grazie all’enorme sforzo che è stato messo in campo, abbiamo preso fiducia: dovremo certo fare delle aggregazioni, ma vogliamo puntare alla chimica verde per diventare il primo gruppo in questo settore. L’obiettivo è mantenerne comunque il controllo perché credo che la chimica italiana, gestita in modo imprenditoriale, anche con delle aggregazioni, ha delle potenzialità assolute che nascono dall’innovazione, dalla ricerca scientifica e dai prodotti innovativi. E un identico percorso ho in mente per il retail gas e luce potendo contare anche qui su colleghi di assoluto valore che hanno fatto un lavoro eccezionale.
Il sequestro del centro Oli di Viggiano e i ritardi sul progetto Tempa Rossa di Total: queste due esperienze vi destabilizzano o non mutano la vostra visione sull’attività estrattiva in Italia? Resterete in Basilicata? E, per quanto riguarda i processi di esplorazione nell’Adriatico, nello Ionio e nel Mar di Sicilia, c’è ancora la volontà di investire o ci sarà un rallentamento?
Non c’è nulla che ci destabilizza se i nostri errori. Credo nell’Italia, non solo perché sono italiano ma perché penso che, se le cose non vanno e non si riesce a farle, è colpa nostra e non del paese. Perciò ritengo che per Eni la cosa migliore sia prendersi la responsabilità completa di tutte le sue difficoltà italiane e forse così si riesce a risolverne il 30-40% senza scaricare la responsabilità su nessuno. Più che destabilizzato quindi sono dispiaciuto perché talvolta non siamo riusciti a fare le cose come si doveva farle. Ora la strada migliore è chiedere scusa fuori e lavorare in casa propria per fare meglio le cose. Questo deve valere per tutti e vale molto di più per noi perché siamo italiani.
Crede ancora in questo paese, dunque?
Assolutamente sì e, dopo tre anni, la visione che ho del contesto industriale italiano è che ci sono delle grandissime potenzialità. Credo onestamente moltissimo nell’Italia, lo dicono le scelte che stiamo facendo e penso, per esempio, che l’aggregazione di un polo forte della chimica verde abbia spazi incredibili non solo in Italia, su tutti i prodotti italiani, ma anche all’estero. Ci sono praterie verdi su questo versante perché nessuno ha fatto niente e quindi è un fronte che dobbiamo aggredire, ma dobbiamo avere certezze regolatorie e legislative. E siamo noi che dobbiamo spiegare: questo non significa fare lobbying, ma far capire appunto come possiamo fare le cose al meglio. Perciò, credo moltissimo in un agglomerato nella chimica verde.
Quando parla di un polo della chimica si riferisce al potenziale dell’intera penisola?
Certamente. Noi produciamo in diverse aree e abbiamo messo in stretta connessione Brindisi con Ravenna, Ravenna con Mantova, e così via. Ed è stato un altro passaggio importante connettere e trovare sinergie tra tutti gli stabilimenti: ha ridotto i costi, ma soprattutto ha fatto lavorare insieme tutti i siti. L’Italia ha un buon tessuto, quindi, ma dobbiamo farlo crescere in modo corretto. Prima non pensavo che potessimo riuscirsi con le sole nostre forze, adesso sono sicuro che ce la faremo: avremo sicuramente bisogno di fare delle aggregazioni, ma tenendo comunque il controllo di questa crescita in cui credo molto.
Nelle scorse settimane, avete siglato un accordo con Snam sul gas per autotrazione. Che prospettive intravvede?
Stiamo lavorando molto sulla mobilità. L’Italia dispone del parco auto a gas più importante d’Europa, un mercato dallo sviluppo molto promettente. La mobilità sostenibile, però, non riguarda solo le auto, ma anche tutto il trasporto marittimo. E noi già stiamo lavorando sulla parte navale dove, per esempio, dei cargo Lng (gas naturale liquefatto) già utilizzano il gas come combustibile riducendo moltissimo i costi e l’inquinamento. L’accordo con Snam è finalizzato ad aumentare le colonnine di metano ma anche a spingere lo small Lng sui porti per ridare poi il gas alle navi. È un percorso non ancora maturo, certo, ma sta avendo riscontri estremamente interessanti.
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