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Minniti, dal record di popolarità ai pugni sul tavolo per…

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Minniti, dal record di popolarità ai pugni sul tavolo per l’affaire migranti

A tre mesi dall’insediamento del governo Gentiloni, un sondaggio di Ipsos lo incoronò il ministro più amato dagli italiani, insieme al premier (indice di gradimento 41). Ieri, forse anche forte di questa popolarità, Marco Minniti è arrivato a mettere sul tavolo le sue dimissioni se il governo non avesse preso posizione in modo preciso sul codice di condotta delle Ong, da lui caldeggiato ma non da tutti i ministri condiviso. Grande esperto di sicurezza, fin dalla tradizione di famiglia (padre generale), calabrese, Minniti non è certo uno che non crede profondamente in ciò che fa. È per questo che ieri, per disinnescare quelle dimissioni pericolose, sono scese in campo le due principali istituzioni del paese: il capo dello Stato e il premier.

Dalla laurea in filosofia alla militanza nel Pci
Minniti, oggi 61 anni, si laurea in filosofia a Reggio Calabria. Figlio di un generale dell’Esercito, negli anni Settanta sceglie il Partito comunista. Primo incarico: segretario nella piana di Gioia Tauro. Prova del fuoco: l’uccisione per mano di mafia del dirigente comunista Peppino Valarioti. «Hanno voluto colpirci per lanciare un messaggio del tutto simile a quello dei terroristi», le parole del giovane Minniti. Da allora inizia la sua scalata al potere. Dal 1988 al 1992 è segretario della federazione Pds a Reggio Calabria, dal 1992 al 1994 segretario regionale. Sono gli anni in cui Minniti si avvicina a Massimo D’Alema da cui, più avanti, si allontanerà per sposare la linea prima di Veltroni, poi di Renzi.

Una passione per la sicurezza
Quando lo scorso dicembre viene nominato da Gentiloni ministro dell’Interno, Minniti porta al vertice del Viminale la sua lunga esperienza di uomo ombra nella cosiddetta back diplomacy. Dal caso Regeni, grazie a una lunga e complessa mediazione con l’entourage del presidente Al Sisi, alla liberazione dei tecnici italiani rapiti in Libia, con la delicata trattativa con i Tuareg, la regia delle operazioni dei nostri 007 ha sempre la firma di Marco Minniti. Al punto che non è né semplice né scontata la sua sostituzione nel ruolo di sottosegretario con delega ai servizi segreti: quella delega resterò ad interim nelle mani del premier Paolo Gentiloni. Nel 2009 è stato fra l’altro tra i promotori della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), «il primo think tank italiano sui temi della sicurezza che ha radunato gli esperti più qualificati tra ufficiali, prefetti, ambasciatori e professori», di cui è stato presidente dalla fondazione (con Francesco Cossiga presidente onorario) fino al 2013.

Discrezione, prima di tutto
Discreto, riservato, Minniti non ama i riflettori né i social media: niente pagina Facebook e neppure profilo Twitter. Alle parole preferisce i fatti. Ha svecchiato, per esempio, l’immagine delle nostre spie. Ha voluto il declassamento degli atti coperti da segreto e ha puntato all’assunzione di trenta giovani selezionati dalle università su settemila curriculum. Tutto ciò dopo che i servizi segreti avevano svolto una serie di presentazioni nelle varie facoltà. Minniti ha inoltre organizzato una commissione indipendente di analisi contro l’estremismo islamico. Convinto che per combattere il nemico occorra imparare a conoscerlo». Negli ultimi mesi, poi, il lavoro - ventre a terra - per ridurre il numero di sbarchi. Con la redazione del codice Ong (apprezzato anche dalla Ue) boicottato da molte Organizzazioni e, sorpresa, poco appoggiato anche da alcuni ministri. Ma Minniti non è tipo da “rassegnarsi” se le cose non vanno. Piuttosto, è capace di lasciare ad altri e di prendere altre strade. Vedremo se la sua linea sui delicati fronti di Ong e Libia continuerà a portare i suoi frutti.

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