Il Forum Ambrosetti è da tempo una occasione in cui i politici cercano di testare i loro rapporti con una quota importante della classe dirigente italiana e in cui questa cerca analisi che le consentano di farsi almeno un’idea su dove si andrà a parare nei prossimi mesi. Alla vigilia di una ripresa autunnale che prelude ad un inizio d’anno elettorale che è sotto il segno dell’indecifrabilità, ma che si apre nel segno di risultati incoraggianti sul piano economico, tutto diventa, per fare una battuta, più elettrico.
I futuri leader o aspiranti tali accorrono per “capire e farsi capire” (Di Maio dixit): oltre al quasi certo candidato dei Cinque Stelle, ci saranno anche Salvini e Toti. Poi naturalmente c’è il presidente del Consiglio in carica che per varie ragioni che cercheremo di esplorare è il personaggio in posizione acrobatica in questo contesto.
La politica italiana vive un momento particolare: è molto frammentata, percorsa sia da una ristretta lotta per la conquista della futura direzione del governo, sia da una vastissima guerriglia per la sopravvivenza condotta da tante piccole tribù e da non pochi lupi o lupetti più o meno solitari. Il contesto in cui si muove non è però più quello che si prospettava alcuni mesi fa. Oggi la ripresa economica è andata oltre le aspettative, anche se non si deve eccedere nell’esaltarsi. Le ondate migratorie sono almeno per ora contenute e la azione del governo grazie a cui si è giunti a questi risultati riceve il plauso dei maggiori leader europei. Anzi il nostro Paese torna ad essere invitato a prendere parte a quella che potrebbe diventare, la cautela è d’obbligo, la futura cabina di regia della risistemazione della Ue.
Rimangono però sul terreno tutte le sfide con cui dovremo confrontarci nei prossimi mesi. La prima è naturalmente la manovra di bilancio, su cui tutti ci attendono alla prova (Moscovici l’ha detto in forma gentile a Cernobbio). È un passaggio delicato, perché è il classico terreno adatto agli assalti alla diligenza da parte di partiti, grandi e piccoli, che pensano di guadagnare voti venendo incontro alle aspettative di lobby, corporazioni e quant’altro. Questa volta non ci sono spazi per la classica vecchia politica elettoralistica del panem et circenses.
Se si vuole non solo consolidare, ma far procedere la ripresa bisogna puntare su robusti investimenti produttivi senza però incrementare il fardello del nostro debito. La questione del sostegno all’occupazione giovanile è cruciale, evitando di perdere le generazioni fino ai 35 anni fino ad oggi pesantemente penalizzate.
Poi c’è il contesto internazionale. Se vogliamo conservare la posizione che ci siamo faticosamente riconquistati nel contesto europeo, dobbiamo puntare a dar prova di essere un sistema politicamente maturo, capace di produrre con il confronto dialettico indispensabile in una democrazia un governo in grado di governare. Qui c’è non solo il tema della sistemazione della legislazione elettorale, ma quello, ben più complesso, di ricondurre lo scontro politico ad un confronto di programmi credibili e non ad una corrida verbale da talk show in cerca di audience.
Al momento non si vedono grandi miglioramenti su quel terreno, ma non è detto che alla fine tutti non si convincano che la gente è stanca di queste tenzoni. Le opposizioni devono capire che la propaganda che tende a rappresentare ogni realizzazione come fumo, come imbroglio, come dovuta a tutto fuorché alla capacità di governare è controproducente, perché travolgerà anche loro in caso di conquista di Palazzo Chigi: se continua a vigere il solito principio del “piove governo ladro”, non ci sarà esecutivo che possa sottrarsi a questo pre-giudizio che azzoppa qualsiasi politica riformatrice che ha di necessità bisogno di fiducia.
Anche la maggioranza attuale ha però bisogno di regolare la propria azione. Gentiloni non può essere lasciato nella enigmatica posizione di un premier a mezza via fra il politico e il tecnico (e con lui il meglio dei suoi ministri), perché non è il leader del partito di maggioranza, ma è egualmente il punto di riferimento a cui si guarda in Europa e da noi per la realizzazione di una prima sostanziale uscita dalla nostra impasse economica e politica.
Gentiloni nel suo discorso a Cernobbio non si è sottratto ad affrontare il problema, anche se lo ha fatto secondo il suo stile che rifugge dalle affermazioni roboanti. Si potrebbe dire che un momento importante del suo discorso è stato quello in cui ha negato che esista l’instabilità italiana. Come si sa questo è uno degli aspetti che più vengono rimproverati al nostro paese. Qui Gentiloni ha parlato davvero più da statista che da uomo politico, perché sottolineando che «negli ultimi 70 anni sulle grandi scelte di politica economica, di politica estera, di apertura degli investimenti, è difficile trovare un paese più stabile nei fondamentali dell’Italia» ha reso omaggio alle classi politiche italiane nel loro complesso, visto che i cambiamenti di orientamento politico in questi decenni non sono stati né pochi né marginali. Va soprattutto sottolineato che si è trattato di una considerazione importante anche per il futuro: «Non mi sta bene il turnover dei governi ma questo non va confuso con un’instabilità di fondo che non c’è: non abbiamo riservato brutte sorprese ad alleati e investitori che hanno scommesso sull’Italia e non le riserveremo in futuro».
Una notazione importante per la platea che aveva di fronte e per la situazione pre-elettorale che gli sta davanti. Un messaggio anche per i nostri partner.
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