Nessuna sorpresa, anche ieri c’è stato un nulla di fatto sulla legge elettorale. La schermaglia è stata tra Pd che chiede una apertura dei 5 Stelle (e l’accordo di tutti) mentre i grillini mettono sul tavolo i vitalizi. Risultato non si muove foglia pur di tenere ben protetti quei capilista bloccati che tanto interessano ai leader – e sembra a Renzi in particolare – e che invece rischiano di saltare se parte la discussione in Aula. Dunque, nulla di concludente. Ma nel frattempo - e nonostante lo stallo – circolano piccoli e grandi bluff come quello di raccontare che sarà il candidato premier del partito vincente a cui il Quirinale dovrà necessariamente affidare l’incarico per Palazzo Chigi. Una “narrazione” che è più un pressing sulle regole ma che non è un automatismo costituzionale.
Innanzitutto perché l’attuale legge – il Consultellum – se resta tale ha un impianto proporzionale. Dunque, non solo non ci sarà un’investitura popolare diretta sui candidati-premier ma il capo del Governo non potrà essere espresso da una sola forza politica, anche se conquista il primo posto nei consensi. Potrebbe esserlo ma anche no. Quello che servirà per aspirare all’incarico, sarà la maggioranza numerica in Parlamento, non basterà il suo partito. E obiettare che c’è il premio di maggioranza per chi supera il 40%, anche quella è una forzatura perché il premio c’è alla Camera ma non al Senato.
Insomma, se Renzi farà campagna elettorale come candidato premier, se Berlusconi e Salvini stanno negoziando sul nome e se i 5 Stelle faranno la consultazione online per lanciare Di Maio, sono solo scelte politiche che non preludono inevitabilmente a prenotare un posto a Palazzo Chigi. Tanto più per il Movimento di Grillo che non vuole fare alleanze. Senza un cambio di logica nella legge elettorale – da proporzionale a maggioritario – la narrazione che oggi prevale nei partiti lascia il tempo che trova. L’attuale Consultellum, così come il simil-tedesco già votato e poi arenatosi, non danno alcuna certezza o garanzia su chi succederà a Paolo Gentiloni. La figura del premier più che dalle urne verrà fuori dalle alchimie parlamentari, dalle indicazioni che daranno i singoli gruppi sulla base della loro forza numerica. Quello sarà il faro del Colle. La maggioranza si costruirà alle Camere, non solo con il voto. Il tema, semmai, è quanto sarà difficile arrivare a un compromesso tra partiti per assicurare un Governo scongiurando che si inneschi un gioco di veti incrociati sui nomi.
È dunque questa la traccia da seguire per individuare chi avrà più chance per la poltrona da primo ministro: non tanto il candidato del partito che arriverà primo, ma la capacità che avrà di raccogliere intorno a sé i voti delle altre forze. E quel premio del 40% (peraltro solo alla Camera) non basta a piegare verso una logica maggioritaria. Anche Pierluigi Bersani, in epoca del Porcellum, non ricevette l’incarico da Giorgio Napolitano perché non aveva i numeri al Senato pure con il premio a Montecitorio. E dunque se i partiti si esercitano per lanciare singole premiership, varranno per la campagna elettorale ma per il dopo-urne si aprirà tutt’altra partita. È anche sotto questa luce che potrebbe riaprirsi uno spazio per modificare la legge elettorale. Però dopo il voto in Sicilia che darà primi segnali sulla forza numerica di partiti e coalizioni.
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