Dall’utilizzo di software alla digitalizzazione dei processi; dalla conoscenza (fino ad arrivare a una rapida padronanza) della nuova strumentazione tecnologica alla capacità di adattarsi ai rinnovati processi aziendali, anche attraverso forme flessibili di organizzazione del lavoro (smart working, compreso).La rivoluzione in atto portata da Industria 4.0 sta cambiando, e rapidamente, specie nelle imprese più innovative, professioni e competenze; e non sempre la “formazione” delle risorse umane è in linea con le novità in arrivo: molto spesso gli imprenditori lamentano competenze esclusivamente “teoriche”; scarso spirito imprenditoriale; e, in genere, è abbastanza elevato il gap “digitale”. In Italia, evidenzia l’Istat, rispetto all’insieme dell’Unione europea (Ue28), la
percentuale delle forze lavoro con competenze digitali elevate è considerevolmente inferiore (il 23% contro il 32%); e tra i 5 maggiori paesi europei il nostro mostra il più basso livello di diffusione delle competenze digitali. Tutto ciò mentre l’ultimo rapporto del Woprld economic forum certifica il ritardo italiano nel capitale umano: siamo 35esimi al mondo su 130 paesi e diventiamo addirittura il 103esimo per i tassi di attività nella fascia d’età 25-54 anni.
In un quadro del genere formazione e apprendimento (possibilmente permanente) rappresentano una scelta obbligata per lavoratori e imprese: il messaggio è arrivato da un po’ tutte le audizioni svolte in queste settimane dalla commissione Lavoro del Senato, guidata da Maurizio Sacconi, connesse all’approfondimento dei cambiamenti nel mercato del lavoro nella quarta rivoluzione industriale. Da un lato è emerso il bisogno che istruzione e mondo produttivo si parlino di più (e meglio): «Non solo l’offerta universitaria dovrà innovarsi - spiega Roberto Pessi, professore di diritto del lavoro alla Luiss di Roma -. Ma serve anche che le scuole superiori migliorino la propria didattica, valorizzando soprattutto gli istituti tecnici e professionali». Dall’altro, ha aggiunto Francesco Daveri (università Bocconi), c’è bisogno di puntare su contenuti di apprendimento “appropriati” per la riqualificazione dei lavoratori anziani o spiazzati dal progresso tecnologico.
Del resto, il 60% delle professioni, secondo gli studi più recenti (Ambrosetti, University2 Business, Osservatori Digital Innovation 2017) “verranno automatizzate” solo in parte, “per almeno il 30%”; e soprattutto se si vuole evitare una perdita di posti di lavoro bisognerà necessariamente “innovare” (si stima, per esempio, che nell’alta tecnologia, life science e ricerca scientifica ci creeranno nei prossimi anni circa 1 milione di posti). Tra le professioni più richieste, ci dice l’Inapp (ex Isfol), ci sono infatti soprattutto analisti e progettisti di software; esperti nei servizi sanitari e sociali, tecnici della gestione finanziaria; esperti nei rapporti con il mercato.
In fondo, un “primo assaggio” dell’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro arriva dalle statistiche Istat sull’andamento dell’occupazione nel settore Ict (un altro indicatore di Industria 4.0): ad esempio, è cresciuta la quota di professioni Ict dirigenziali e tecniche a elevata qualificazione (ingegneri elettronici e delle comunicazioni, analisti e amministratori di sistema, specialisti di Rete e della sicurezza informatica). Ebbene, il loro peso sul totale dell’occupazione in professioni Ict è salito dal 23% al 30,9%. E fa riflettere, infine, come più della metà degli occupati in professioni Ict risulti impiegata in settori non-Ict. Un altro indizio del peso delle nuove tecnologie (e della direzione che sta prendendo il mercato del lavoro).
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