Al momento è solo un annuncio, ma ha già fatto discutere. Il ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli ha aperto all'utilizzo degli smartphone in classe, predisponendo una commissione per definire le «linee guida dello smartphone in aula» al via domani. Fedeli sostiene che
i dispositivi, utilizzati con criterio, potrebbero trasformarsi in uno «strumento utile di apprendimento», veicolando la formazione
attraverso un mezzo già familiare ai giovanissimi. “Potrebbero”, appunto, perché c'è chi ha sostenuto il contrario e agito
di conseguenza. Nel resto del mondo, dagli Stati Uniti ai paesi scandinavi, si è tentato più che altro di fissare delle limitazioni all’uso di dispositivi a scuola perché danneggebbero i risultati
degli studenti. I risultati concreti, poi, sono tutti da verificare. Uno studio della società di ricerca CommonSense ha evidenziato che
gli adolescenti americani spendono in media nove ore al giorno sui social media - e non è un mistero che una quota del “fabbisogno”
sia consumato dai propri display durante le lezioni in classe.
Dal Regno Unito agli States, quali sono le regole all’estero
In genere non esistono legislazioni ad hoc, ma la scelta è affidata ai singoli istituti. Nel Regno Unito, secondo dati che
risalgono al 2015, il totale di scuole che vieta l'uso di smartphone (attraverso proibizione tout court o richiesta di consegna in ingresso)
è cresciuto da 50% del 2007 a oltre il 90% nel 2012. Gli effetti sembrerebbero benefici: un report del Centre for economic performance della London School of Economics, pubblicato sempre nel 2015, hanno stimato valutazioni in miglioramento del 6,4% a seguito dei divieti, pari a una settimana in più di lezioni “recuperate” dalla disattenzione generata dai cellulari .
Nelle scuole tedesche l'uso è disciplinato dai regolamenti adottati dai vari istituti, con differenze anche a seconda dei landër. Negli Stati Uniti si sono diffuse politiche restrittive, ma didattica e regole si stanno adattando alla proliferazione dei dispositivi con sperimentazioni di “educazione digitale” che passano per app e programmi specializzati. Senza dimenticare un fattore sensibile, almeno nelle metropoli: l'uso degli smartphone per comunicare con i genitori e rendersi sempre reperibili, anche in ottica di una maggiore sicurezza. La stessa ragione che ha spinto Bill De Blasio, il primo cittadino di New York, ad abolire nel 2015 il divieto che impediva agli studenti di introdurre qualsiasi cellulare o dispositivo elettronico nelle proprietà scolastiche della Grande Mela. In alcuni casi, però, sono gli stessi studenti a vedere di buon'occhio qualche rigidità in più. Secondo un sondaggio della società di telecomunicazioni Telenor, il 40% degli studenti svedesi non ha alcuna possibilità di fare uso dello smartphone in classe. Una ragione di scontento? Al contrario: il 57% degli allievi interessati (età di 10-15 anni) considera positivo il divieto, contro una quota di appena il 14% che vorrebbe più elasticità.
Ferri (Bicocca): vietarli in blocco non ha senso, ma no a uso indiscriminato
Al di là delle policy, e dei dubbi sulla loro efficacia, la presenza dello smartphone in classe riapre una questione che ha
già preso piede da tempo: il ruolo delle tecnologie come leva di potenziamento didattico, piuttosto che fattore di distrazione
degli studenti in un'età sensibile. E qui gli interrogativi si fanno più sottili rispetto al dualismo tra favorevoli e contrari
all'utilizzo di un dispositivo. Anche perché il ragionamento, come sempre, dovrebbe concentrarsi sull'uso della tecnologia
e non sulla tecnologia in sé, per sua natura neutra. «È ovvio che usare gli smartphone in maniera indiscriminata in classe
produrrebbe un certo ritardo. Ma da qui a proibirlo del tutto, ne passa» spiega Paolo Ferri, ordinario di Didattica e pedagogia
alla Bicocca ed esperto di tecnologie applicate alla formazione. «Ma è anche vero – prosegue – che lo stesso smartphone può
essere un potente mezzo di attivazione didattica, se non è usato in maniera incontrollata. In fondo, ormai, cosa cambia rispetto
a un Pc?».
Tra gli usi «non incontrollati» dello smartphone citati da Ferri ci sono delle forme di lavoro di gruppo, ricerca e scambi di informazioni che possono essere agevolati dai tempi rapidi della comunicazione sul cellulare. « Ad esempio, e non succede in Italia, si usa lo smartphone per finalità didattiche – dice Ferri – Prendiamo il caso di ragazzi che lavorano in gruppo, in classe, su consegna dell'insegnante. In questo caso lo smartphone diventa uno strumento prezioso». In una certa misura, secondo Ferri, l'introduzione (graduale) degli smartphone in classe potrebbe anzi servire a diffondere una «cultura sana delle tecnologie, come forma di apprendimento e non solo di perdita di tempo – dice – Bisogna insegnare a farne un uso intelligente, e bisogna farlo a scuola». Il limite, però, è nell'infrastruttura. Le sperimentazioni digitali della formazione su smartphone sono diffuse in istituti con finanziamenti corposi e in sistemi dove l'istruzione è coltivata (anche) in senso innovativo. In Italia, fanalino di coda Ue per investimenti in formazione e retribuzione dei docenti, il progetto degli smartphone come «potenziamento didattico» potrebbe scontrarsi su carenza di risorse e materiale tecnico. Penalizzando la qualità dell'insegnamento, elevata, delle nostre scuole: « La scuola inizia pian piano a infrastrutturarsi e si sta cominciando a fare una formazione anche tecnologica degli insegnanti – dice Ferri – Ma siamo ancora indietro, e forse è presto per gli smartphone».
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