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In pensione il 20% degli statali: maxi-staffetta generazionale…

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settore pubblico

In pensione il 20% degli statali: maxi-staffetta generazionale nella Pa

(Fotogramma)
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Negli uffici di ministeri ed enti locali italiani sta per manifestarsi in pieno la “gobba demografica” gonfiata dalla lunga stasi degli anni di crisi di finanza pubblica. Ma l’onda arriva alla vigilia del rinnovo dei contratti, in freezer dal 2010, e soprattutto dell’avvio operativo della riforma del pubblico impiego che prova a cambiare le regole su organici e assunzioni. Una congiuntura “ideale” per svecchiare organizzazioni e procedure, a patto di saperla cogliere. Proprio per questo anche in vista della manovra e dei decreti collegati si lavora a soluzioni per stringere i bulloni della riforma.

I numeri, prima di tutto. Secondo i calcoli della Funzione pubblica, riassunti dal sottosegretario di Palazzo Vidoni Angelo Rughetti, in quattro anni andranno in pensione 500mila dipendenti pubblici. Con le uscite per altre cause, dalle dimissioni ai passaggi al privato (25mila all’anno in media), il conto potrebbe salire fino almeno a 600mila “abbandoni”. In pratica, su un organico che dopo anni di dieta conta poco più di tre milioni di dipendenti (3.015mila secondo l’ultimo censimento del Tesoro), a imboccare l’uscita sarebbe il 20% del personale. «È un’occasione straordinaria per far entrare i giovani - riassume Rughetti - e la legge di bilancio può essere uno strumento per coglierla». Come?

LA FOTOGRAFIA DEL PUBBLICO IMPIEGO
Dipendenti della Pa per comparto e fascia d'età (Fonte: elaborazione sole 24 ore su dati Rgs)

Le idee allo studio viaggiano sul sentiero già tracciato dalla riforma Madia, e fondato su due pilastri: il primo è l’analisi dei fabbisogni, che dovrebbe sostituire la griglia rigida degli organici, con la definizione di spazi per le assunzioni differenziati a seconda dei profili professionali. Ieri è circolata anche l’ipotesi dell’anticipo delle uscite, ma appare una strada difficilmente percorribile. Nella pratica, oggi ogni ente può dedicare ai nuovi ingressi una spesa misurata in base ai risparmi prodotti dalle uscite: il governo, d’intesa con la Conferenza unificata nel caso di Regioni ed enti locali, dovrà invece individuare in ogni ambito quali sono le competenze su cui investire di più e quali quelle meno strategiche, e su questa base articolare il via libera ai nuovi ingressi. L’obiettivo è di concentrare il reclutamento sulle figure più legate alle esigenze ignorate dai vecchi organici, a partire dalla digitalizzazione di servizi e procedure, e su quelle trascurate dai blocchi lineari del turn over nelle attività di prima linea con cittadini e utenti, dai servizi sociali ad alcune professioni sanitarie solo per fare qualche esempio. La riforma, poi, nel tentativo di fare ordine nel groviglio dei concorsi pubblici, e dei ricorsi che spesso li accompagnano, punta a proporre a tutte le amministrazioni il «concorso unico» già sperimentato dal 2013 per la Pa centrale.

Passare dalle strategie alla pratica non è semplice, anche perché il quadro cambia da settore a settore. Nell’attesa dei «fabbisogni», negli enti locali le maglie del turn over hanno già cominciato ad allargarsi, dopo che la manovrina di primavera ha triplicato gli ingressi possibili permettendo a tutti i Comuni (a patto di rispettare i vincoli di finanza pubblica) di dedicare a nuove assunzioni il 75% dei risparmi prodotti dalle uscite. Nell’amministrazione centrale, dai ministeri agli enti pubblici nazionali (tranne quelli di ricerca), il ricambio resta per ora ancorato al 25% anche per il 2018, ma dovrebbe salire al 100% dall’anno successivo. In un quadro come questo, già con le regole attuali è possibile stimare almeno 80mila nuovi ingressi nel 2018, al netto della scuola. Nel flusso dovranno entrare anche i circa 50mila precari “storici”, concentrati soprattutto negli enti territoriali, al centro del piano triennale di stabilizzazione in partenza da gennaio.

La quota più ampia di personale in uscita si incontra al centro della nostra Pa. Con l’eccezione del piccolo settore dei prefetti, i ministeri sono l’unico settore nel quale più di un dipendente su cinque ha superato i 60 anni di età. Gli over60 sono pochi meno nelle agenzie fiscali, tra i tecnici delle università (e fra i docenti andrà in pensione un terzo degli ordinari nei prossimi tre anni, secondo i calcoli del governo), mentre l’età scende negli enti che si sono potuti muovere più liberamente nella gestione del personale, come le Regioni autonome, e in quelli più “giovani” come le Autorità indipendenti.

Ma la riapertura ad ampio raggio delle assunzioni nella Pa deve fare i conti con la dinamica dei costi del personale pubblico che, interessi sul debito a parte, rappresentano l’unico aggregato di spesa corrente diminuito in questi anni in valore assoluto (dai 169,6 miliardi del 2011 ai 164,1 del 2016, con un -3,3% che diventa -7,2% contando l’inflazione del periodo). Certo, il costo medio dei nuovi ingressi sarà inferiore a quello di chi esce dopo decenni di anzianità, ma la questione si incrocia con il rinnovo dei contratti ormai in arrivo.

Anche di questo dovrà occuparsi la manovra: per la Pa centrale, l’obiettivo di garantire 85 euro medi di aumento senza rimettere in discussione la geografia attuale degli 80 euro targati Renzi costa fino a 1,5 miliardi; e copertura analoga andrà trovata in sanità, regioni ed enti locali. Proprio il nodo del personale, insomma, promette di accendere il confronto con gli amministratori locali sulla legge di bilancio.

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