Il caso delle “finte” primarie dei 5 Stelle, la lotta per la leadership nel centro-destra, le tensioni nel Pd che aspetta le elezioni siciliane per rimettere sulla graticola il segretario, aggiungono alla cronaca politica di questi giorni una forza polemica in un quadro che - però – è lo stesso dall’inizio della legislatura. Nel senso che la mappa con cui si andrà alle elezioni del marzo 2018 era già chiara almeno dalla fine del 2013. Silvio Berlusconi, nonostante la sentenza, c’era e rimane in questa campagna elettorale, Matteo Renzi c’è da fine 2013 e dopo la sconfitta referendaria è stato riconfermato dalle primarie dello scorso aprile, Matteo Salvini fu eletto nell’autunno di 4 anni fa ed è sempre lui in pista. E, ora, pure Luigi Di Maio che sin dall’inizio veniva definito leader in pectore, si conferma il “prescelto” del Movimento. In sostanza, tutto quello che è accaduto nell’arco della legislatura - gli scontri all’interno dei partiti, le sconfitte politiche, l’andamento dei sondaggi – ha lasciato intatta l’arena e i suoi protagonisti.
È vero che pure negli altri Paesi – Angela Merkel è uno degli esempi – non c’è un turn over costante dei candidati alla premiership ma almeno c’è un rimescolamento tra i “nuovi” sfidanti da cui sono venuti fuori nomi come quello di Emmanuel Macron o Martin Schulz. In Italia invece il contesto si è come cristallizzato su alcune figure principali che hanno reso – e stanno rendendo – un rito quasi inutile quello della selezione per la campagna elettorale. I sette avversari “minori” di Di Maio – al netto della provocazione di Roberto Saviano – sono di puro contorno a quella che è a tutti gli effetti una designazione costruita da tempo da Beppe Grillo e da Casaleggio e che non è mai stata messa in discussione. Anche nei momenti più difficili – quando un anno fa scoppiò il caso delle mail sottovalutate da Di Maio sull’indagine all’assessore all’Ambiente di Roma - il vertice del Movimento l’ha protetto come si fa, appunto, con i “prescelti”.
Alla fine, insomma, questi anni sono serviti più a consolidare delle figure che non a trovarne di nuove. E per ragioni che in ciascun partito sono diverse. Nei 5 Stelle perchè c’è un leader designato anche se avrebbe degli sfidanti veri – Alessandro Di Battista o Roberto Fico – dall’altra ci sono leader per assenza di veri competitori come Renzi e Berlusconi, oppure ci sono quelli che pur non avendo fatto le primarie, come Salvini, si sono guadagnati a colpi di sondaggi e di alcuni successi alle amministrative il ruolo di “capi”.
Questa però è solo l’inquadratura principale della scena politica. In realtà, qualche nome “nuovo” potrebbe uscire dopo le elezioni e sempre che il sistema resti proporzionale o con una forte dose di proporzionale (come ora si discute di ritoccare il Rosatellum). Con queste regole, infatti, i candidati premier di oggi rischiano di elidersi più che di rafforzarsi dando spazio a nomi che al momento sembrano fuori gara ma che potrebbero fare da “mastice” per nuove maggioranze. Non solo Paolo Gentiloni ma anche Marco Minniti o Carlo Calenda.
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