Vi è una recessione che dovrebbe inorgoglire gli italiani. Ma che delude, e parecchio, la vasta compagnia dell’intrattenimento en noir che si ritrova, per tutti i giorni del calendario, nella fascia televisiva pomeridiana e in prima serata.
Il fatto è che diminuiscono, fin quasi a segnare un’irrilevanza statistica – ripetiamo: solo statistica! – gli omicidi volontari. E per costruire una comparazione descrittiva dei territori “violenti” si devono cumulare i casi effettivamente consumati con il numero di quelli tentati. Altrimenti sarebbe scorretto, per esiguità dei conteggi disaggregati per provincia, pesare e raffrontare il fenomeno della violenza estrema.
Nell’intero 2016 quei 400 luttuosi episodi sono sommati ai 1.076 tentati e non portati a termine. Solo numeri? Cosa significano? Allunghiamo la gittata della memoria. Arriviamo all’anno di picco del Novecento, escludendo ovviamente il primo biennio del dopoguerra. Si era nel 1990 e di ammazzamenti ne vennero conclusi 1.773, mentre altri 1.959 risultarono tentati. Si dirà, il fenomeno permane tutt’oggi come allarmante se si considerano quelli di mafia e di gomorra. È vero: però andiamo alle comparazioni. Ebbene, in Italia si è scesi da 506 episodi di omicidi mafiosi, sempre nel 1990, ai 48 dell’anno scorso. Per favorire l’ingresso di questa informazione nella nostra sfera cognitiva riflettiamo che si è trattato di un valore pari a un terzo di quello che si registrò allora nella sola provincia di Napoli. Oppure osserviamo che la sommatoria per l’anno 2016 di eventi consumati con quelli solo tentati porta a ottenere un numero inferiore a quello dei soli consumati nel 1990.
Ma invece di un Te Deum di ringraziamento eleggiamo la drammaturgia del sangue a genere ricreazionale di massimo gradimento. E per riuscirvi, autori di programmi e attori non professionisti devono predisporre una cornice larghissima per un dipinto in miniatura. Il mercato della paura lavora infatti sull’impostura, dilatando il tempo medio di permanenza in cronaca delle storie scellerate e dei dettagli granguignoleschi. Il pubblico perde la cognizione del tempo, e vicende dei primi anni Duemila (Cogne, Novi Ligure, Perugia) o di qualche lustro fa (Brembate, Avetrana…) scorrono nei teleschermi alimentando un sentimento cronicizzato d’insicurezza. In una siffatta percezione vanno a collocarsi le rappresentazioni di altri fenomeni, come l’arrivo di profughi, di immigrati e l’estendersi delle aree urbane mal amministrate e perciò in continuo degrado.
Di là delle notazioni culturali o di costume vi è però una conclusione tecnica da trarre. Interessa l’efficacia della prevenzione dei reati e il perseguimento giudiziario. Più si apre la valvola dell’allarme e della paura, meno razionali ed efficaci sono le risposte operative e di servizio. La sicurezza pubblica, in una società aperta, è un valore pubblico da creare nella quotidianità. Ed è nel “semplice” operare giornaliero che si può aggredire anche lo zoccolo duro della violenza: che esplode in ambito famigliare e nei rapporti di genere. Di quei 400 omicidi dello scorso anno, infatti, merita di esser ricordato che ben tre su dieci hanno riguardato l’ambito delle relazioni domestiche o affettive, con 59 femminicidi. Ed è la frequenza di tali eventi che tarda a calare. Le agenzie che dovrebbero prevenirli spesso non ne colgono i segni premonitori e differiscono l’intervento. Qui occorre passare dall’agire con dispositivi a predisporre servizi radicati nel territorio e tesi a conquistare fiducia e collaborazione dei cittadini.
Resta un importante quesito ed è l’influenza che la lunga, decennale crisi sociale ed economica esercita sulla complessiva questione criminale. Anche su tale scenario più vasto dovremmo modificare taluni concetti. Sociologi e criminologi asserivano che nelle fasi cicliche, quando calano redditi, consumi e occupati, aumentano le frequenze dei reati violenti e diminuiscono i delitti contro la proprietà. E invece – come mostra il dossier del Sole 24 Ore – sono in flessione entrambe le tipologie di delitti. Certamente vi contribuisce il massiccio e capillare dispiegamento di reparti di polizia e militari nelle grandi città.
Sono lì in funzione antiterrorismo, ma gli effetti collaterali positivi sono una diminuzione di furti e rapine nelle vie e nelle case. L’agenda della sicurezza pubblica andrebbe perciò rivisitata, almeno in parte, con due operazioni: da una parte, spostando il centro verso la gestione sapiente del territorio, con modelli di amministrazione efficiente delle città, monitorando quanto avviene nel tessuto di strade, piazze e località turistiche; dall’altra parte, contrastando reati che lievitano nei rigori della crisi economica e penalizzano la comunità degli affari, con frodi, riciclaggio, insolvenze e fallimenti programmati, evasione fiscale, corruzione tra privati. Di questo complesso di fenomeni non esiste un territorio “fisico”, ma un sistema sommerso di condotte, manipolazioni, technicality dell’illegalità nelle relazioni d’affari.
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