Nessun muro contro muro. Occorre uscire dal vicolo cieco. Che è stato costruito quasi con pazienza e con metodo da una serie di ambiguità lessicali e di contraddizioni giuridico-economiche. E in cui si rischia di rimanere per tensioni che nulla c’entrano con l’Ilva.
Calenda ha rovesciato il tavolo. Arcelor Mittal, che di Am Investco Italy è magna pars, non ha risposto colpo su colpo. Adesso, l’importante è che le controparti – governo, sindacati e acquirente – tornino a parlarsi e trovino un punto di equilibrio da cui ripartire per condurre in porto la ricostruzione, dalle ceneri dell’Ilva, di un gruppo siderurgico in grado di funzionare.
In questa vicenda il Paese ha dato prova di un autolesionismo che sconfina nel cupio dissolvi. Senza un punto di equilibrio, l’economia italiana – manifatturiera fino al midollo – si ritroverebbe monca di una sua componente essenziale – l’acciaio del fu terzo gruppo siderurgico europeo – e la società italiana, piegata soprattutto al Sud da una crisi pervasiva e perturbante, potrebbe avere in Taranto un suo incontrollabile punto di detonazione. Questo, soprattutto adesso che la politica italiana inizia a perdere razionalità e ad essere percorsa dagli spiriti animali del voto che si avvicina.
L’attitudine a reazioni dure di Calenda è per tutti una novità nella tradizione morbida e melliflua della politica economica e industriale italiana. La scelta di fare saltare il banco ancora prima dell’inizio dell’incontro fra sindacati e Am Investco Italy, la società di Arcelor Mittal di cui Marcegaglia ha una minoranza, potrebbe rappresentare una cesura. Calenda, che ha visto le sue parole accolte con favore dai sindacati e da quello che un tempo si sarebbe definito “l’intero arco costituzionale”, è stato netto: «Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo, la trattativa non va avanti».
L’accordo di luglio – formale e sostanziale – è basato su due elementi. Il primo, doloroso ma pragmaticamente accettato dalla politica e sottovoce dal sindacato, è l’idea che al massimo fra Taranto, Novi Ligure e Cornigliano possano lavorare 10mila e non 14mila addetti. Quattromila addetti in meno, così da rendere sostenibile il meccanismo industriale e la finanza di impresa di un gruppo che, finché non verrà completato il piano ambientale, non dovrà (o non potrà) produrre più di 6 milioni di tonnellate all’anno. Un dato di realtà suffragato dal numero di operai e tecnici che, in questi anni, sono stati costantemente in solidarietà o in cassa integrazione: fra i 3mila e i 3.300. Il problema sollevato da Calenda riguarda invece il tema retributivo: l’idea di ridurre i salari è giudicata irricevibile. Riduzione che, peraltro, dovrebbe avvenire azzerando i livelli di anzianità e recependo gli istituti contrattuali nella nuova impostazione del Jobs Act.
Calenda ha lanciato la bomba. Ma il campo è stato da tempo riempito di mine.
La prima mina è appunto la tempistica del piano ambientale, ormai in Gazzetta Ufficiale: va realizzato entro il 2023. Sei anni. Sei anni in cui la produzione non potrà salire sopra le 6 milioni di tonnellate. Il 40% in meno rispetto alle 10 milioni di tonnellate dei massimi storici dell’Ilva dei Riva. Impianti di questo tipo si ripagano soltanto oltre certi livelli produttivi. Sotto i quali, il costo del lavoro diventa un nervo scoperto in grado di paralizzare un corpaccione che sembra gigantesco, ma che per paradosso non è abbastanza grande. Ecco che la richiesta di portare gli addetti della nuova Ilva da 8.500 a 10mila è diventata un problema. Arcelor Mittal fa sapere di non avere mai garantito, con l’ampliamento del perimetro occupazionale, il mantenimento dei 50mila euro lordi per dipendente. Farlo avrebbe comportato un aumento del costo del lavoro di 75 milioni di euro all’anno.
La seconda mina è il senso di allontanamento dall’Ilva che la politica ha elaborato e realizzato, in questi anni, grazie alle figure dei commissari. Non a caso sono loro gli interlocutori a cui, appunto, Arcelor Mittal non avrebbe mai garantito l’estensione a tutti dei famosi 50mila euro lordi.
La terza mina è lessicale. Il punto giuridico, che in questo caso ha una preminente cifra politica e culturale, è il passaggio del bando sull’Ilva in cui si cita espressamente l’”assunzione dei dipendenti in discontinuità”. Questa espressione è coerente con la riorganizzazione del mercato del lavoro effettuata dal Governo Renzi. Ai cui istituti la nuova Ilva, progettata da Am Investco, avrebbe fatto - o vorrebbe fare - ricorso. Riforma del mercato del lavoro che ha rappresentato uno dei punti di rottura degli ultimi anni. Sia per la sinistra, oggi tribalizzata e alla ricerca di una nuova configurazione. Sia per il sindacato, in particolare la Cgil, il corpo intermedio che Renzi desiderava estinguere e che, appunto, tramite la Fiom per la nuova Ilva vorrebbe assunzioni in perfetta continuità con la vecchia Ilva, dunque con un regime economico e contrattuale in deroga al Jobs Act.
Per tutte queste ragioni, la paga dell’operaio dell’Ilva non è soltanto la paga dell’operaio dell’Ilva. È anche altro. E, questo, complica tutto.
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