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Una mozione non può depotenziare i poteri del Colle

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L'Analisi|LE CAMERE E LA NOMINA

Una mozione non può depotenziare i poteri del Colle

La legge 28 dicembre 2005 n. 262 contiene disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari. All’articolo 19 comma 8 suona così: «La nomina del Governatore è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia». E aggiunge che la stessa procedura va seguita per la revoca del Governatore. Del Parlamento l'articolo in questione non fa il minimo cenno.

In apparenza, quest'omissione può apparire singolare. Difatti le due Camere di un Parlamento assolutamente paritario come il nostro, oltre al potere legislativo, hanno altre due prerogative delle quali nessuno può dubitare. Hanno il potere di controllo sul governo, che si esercita con le interrogazioni, le interpellanze, le interrogazioni a risposta immediata (versione italiana del britannico Question Time) e le inchieste, oltre alle mozioni di censura e a quelle di sfiducia a un singolo ministro o all'intera compagine ministeriale. E hanno poi il potere di indirizzo politico sul governo, che si esercita con le mozioni e le risoluzioni. Nel caso specifico il potere di controllo resta più o meno integro, sia pure con giudizio. Mentre il potere d’indirizzo si affievolisce fino a scomparire nelle ipotesi estreme. Cioè quando le Camere pretendono di impegnare il governo a revocare il Governatore in carica o a suggerirne il successore.

Ecco, questo non è nella disponibilità delle Camere. Pertanto le mozioni presentate alla Camera dei deputati dal pentastellato Alberti, dal leghista Busin e dal verdiniano Zanetti , discusse e respinte nella seduta del 17 ottobre scorso, dovevano essere dichiarate dalla presidenza di assemblea inammissibili. Mentre la mozione presentata in zona Cesarini dalla piddina Fregolent era forse l’unica che poteva essere dichiarata ammissibile in forza del principio in dubio pro reo. Perché, a differenza delle altre, si salva in quanto si rifugia nel latinorum e non chiede apertamente la revoca del Governatore. A riprova che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Soprattutto dopo la riformulazione della mozione pretesa dal rappresentante del governo. E questa circostanza proverebbe che lo stesso presidente del Consiglio ne è venuto a conoscenza solo nel corso del dibattito parlamentare. Ci sono due buoni motivi per sostenere la tesi dell’inammissibilità. Per cominciare, la nomina e la revoca del Governatore non sono nella totale disponibilità del presidente del Consiglio e del Consiglio dei ministri. Come per l’appunto prevede la legge del 1995. Si tratta di atti complessi ai quali partecipano il Consiglio superiore della Banca d’Italia, il cui parere è obbligatorio ancorché non vincolante, e soprattutto il presidente della Repubblica.

Qui sta il rebus. Difatti l’articolo 89 della Costituzione al suo primo comma dispone che nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Quel «proponenti» però è una svista. Sarebbe stato invece corretto parlare di ministri «competenti». E la controfirma è da sempre la croce e la delizia dei costituzionalisti. I quali, a tavolino, hanno elaborato una tripartizione. Ci sono atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, come la nomina del presidente del Consiglio, la nomina dei senatori a vita e lo scioglimento delle Camere. Ci sono poi atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, e se ne contano in gran numero. Ci sono infine atti cosiddetti duali o duumvirali, nei quali a pari titolo confluiscono le volontà del capo dello Stato da una parte e del presidente del Consiglio e del Consiglio dei ministri dall’altra. Questa tripartizione non è rigida ma entro certi limiti elastica. Basti fare il caso del potere di grazia. Un tempo considerato universalmente un atto condiviso e invece attribuito dalla Corte costituzionale esclusivamente al capo dello Stato a seguito del conflitto di attribuzioni sollevato dal presidente Ciampi nei confronti del guardasigilli leghista Castelli.

Ma in questo caso dubbi di sorta non ce ne sono e non ce ne potrebbero essere. Il presidente della Repubblica non è un mero passacarte. Per usare le belle parole di Meuccio Ruini nella sua relazione al progetto di Costituzione, il capo dello Stato «non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre Costituzioni». No, egli «rappresenta ed impersona l'unità e la continuità nazionale». È «il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica». E per l’appunto in tale veste Sergio Mattarella è il massimo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della Banca d'Italia. Mentre tutte le mozioni colpevolmente miravano a depotenziare le prerogative del capo dello Stato.

I nostri beneamati legislatori non saranno uomini della Provvidenza, ma della previdenza senz'altro sì. Nella legge del 1995 sopra citata non hanno menzionato il Parlamento anche per un altro buon motivo. Perché quando la politica di partito entra dalla porta principale della Banca d'Italia, la sua autonomia e la sua indipendenza, beni preziosi, se ne volano via scandalizzate dalla finestra.

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