Il tentativo di coinvolgere il Quirinale nella querelle sulla riforma della legge elettorale e le mozioni parlamentari contro la allora ipotizzata riconferma di Ignazio Visco al vertice di Bankitalia sono due esempi plateali di perdita del senso delle istituzioni.
Partiamo dall’appello a Mattarella a non firmare il cosiddetto Rosatellum bis perché incostituzionale. Lo sarebbe ovviamente non perché una istituzione deputata a pronunciarsi sul tema l’abbia dichiarato tale, ma perché così sembra ad alcune forze politiche, in specie ad una, M5S, che su questo punto aizza la piazza.
Il giudizio politico è legittimo, ovviamente, ma non può sconfinare nell’attacco alle istituzioni, di cui non vanno confusi i ruoli.
Non occorre una cattedra di diritto costituzionale per inquadrare la faccenda nei giusti termini.
La nostra Carta stabilisce che il Presidente della Repubblica non firma una legge regolarmente approvata dal parlamento se questa è manifestamente incostituzionale. L’avverbio è fondamentale. Il Presidente non è un anticipatore della Corte costituzionale, a cui spetta in esclusiva il compito di giudicare la costituzionalità delle leggi. Può far valere il suo giudizio (il suo, non quello che gli viene suggerito da questo o da quello) solo nel caso in cui l’evidenza della incostituzionalità della legge in questione salti agli occhi e sia fuori di ogni ragionevole dubbio.
Se così non fosse, la Consulta potrebbe essere abolita, oppure il Presidente dovrebbe rispondere responsabilmente nel caso non avesse rilevato una incostituzionalità poi evidenziata dai giudici della Corte. Invece così non è, e dunque Mattarella, come tutti i suoi predecessori, è tenuto a promulgare le leggi regolarmente approvate che non presentino quelle evidenze fuori discussione di cui si è appena detto. Così non era per il cosiddetto Italicum, che infatti poi la Corte ha giudicato solo parzialmente incostituzionale, così con tutta evidenza non è per il Rosatellum. Toccherà eventualmente alla Consulta valutarne poi nel merito le tecnicalità, tenendo anche presente che essa ha un margine di manovra che il Presidente non ha: la Corte infatti può giudicare conformi a quanto prescrive la Carta solo alcune parti, mentre se il Presidente non firmasse sarebbe sanzionata tutta la legge.
Un ragionamento non dissimile andrebbe fatto sulla questione della conferma del governatore Visco. Al contrario di quel che si cerca di far credere, nessuna persona razionale sostiene che il vertice di Bankitalia sia un intoccabile che non può essere sottoposto a critiche. Il problema è dove e come lo si debba fare se vogliamo mantenere un quadro di credibilità interna e internazionale per una istituzione centrale nel sistema dei “checks and balances” istituzionali.
I partiti, come i singoli uomini politici hanno tutto il diritto di far conoscere anche al pubblico le proprie opinioni al proposito: ci sono le dichiarazioni ai media, le prese di posizione in sede di partito, le battaglie di opinione, soprattutto i disegni di legge. Ciò che non possono fare è usare in maniera impropria la tribuna parlamentare ponendo da essa temi che non rientrano nella competenza delle Camere. Se delle forze politiche (plurale, perché nella bagarre non c’era solo il Pd) ritengono responsabilmente che a loro giudizio il sistema di vigilanza di Bankitalia non abbia funzionato, propongano nelle sedi proprie analisi sul perché ciò è accaduto e invece in Parlamento avanzino proposte di nuove normative per evitare che si ripetano. Questo farebbe fare passi avanti al sistema (e ce ne sarebbe bisogno), mentre censurare, fra il resto in maniera ambigua, un vertice che deve essere rinnovato da altre istanze istituzionali (e costituzionali) a cui compete quel compito significa solo pasticciare gli equilibri del sistema.
Perché, ammettiamolo, se una classe politica non capisce che manomettere gli equilibri più delicati di un sistema è un gioco al massacro, bisogna augurarsi che almeno riacquisti al più presto i fondamenti della cultura politico-istituzionale.
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