È arrivato il giorno dello sport sullo schermo alla Festa del cinema di Roma. Con un lungometraggio di fiction (I, Tonia di Craig Gillespie ispirato alla storia della pattinatrice Tonya Harding che nel 1994 aggredì la rivale Nancy Kerrigan) e due documentari in programmazione nello stesso giorno: Ferrari: race to immortality di Daryl Gooldrich sulla vita di Enzo Ferrari e Love means zero sulla controversa figura di Nick Bollettieri. Ed è soprattutto quest’ultimo a rubare gli occhi.
Un live coach più che un maestro di tennis
Bollettieri è molto di più che un allenatore. L’86enne italoamericano, otto matrimoni alle spalle, proprietario per oltre 30 anni di una Academy tennistica a metà tra un resort e una caserma celebre in tutto il mondo, incarna il prototipo del sogno americano. Che a volte dopo averti fatto toccare l’apice ti riporta nella polvere. Senza aver giocato neanche un set a livello agonistico, quello che i suoi stessi collaboratori definiscono un life coach più che un semplice maestro di tennis ha visto passare sui suoi campi in cemento della Florida molti astri del firmamento tennistico mondiale. In alcuni casi quando erano già noti e intenzionati a ritornare in vetta (uno su tutti Boris Becker); in altri quando erano ancora delle giovani promesse da plasmare nell’arco di decenni di lavoro. Prima mentale e poi tecnico. Si va da Kenneth Horvath a Jim Courier, da Monica Seles alle sorelle Serena e Venus Williams fino all’irrequieto e talentuoso Andre Agassi che arriva 13enne da Las Vegas e viene improvvisamente allontanato dal suo mentore 12 anni dopo. All’indomani del suo primo trionfo al Roland Garros.
Uno spaccato di vita vera
In poco più di 90 minuti davanti alla macchina da presa di Jason Kohn si avvicendano Bollettieri, due dei suoi collaboratori e alcuni dei campioni che hanno avuto la fortuna di incrociare la racchetta con lui. Ne viene fuori un documentario che attingendo anche a tantissimo materiale di repertorio trasuda vita vera in ogni inquadratura. E che vede il suo fulcro nel rapporto di amore-odio-possesso-gelosia-rimpianto con Agassi. L’unico momento in cui il protagonista non riesce a trattenere le lacrime, infatti, è quando legge la lettera che il suo talento prediletto gli ha inviato molti anni dopo il traumatico divorzio sportivo del 1995. Una frattura che si era consumata a sua volta per iscritto, apparentemente per motivi economici, e che non è mai stata superata. Con un botta e risposta che è proseguito negli anni a colpi di interviste e autobiografie.
Un rapporto padre-figlio più che maestro-allievo
La dinamica della loro relazione somiglia a quella tra un padre e un figlio piuttosto che al connubio sportivo tra il tennista con la più efficace risposta al servizio e il suo coach. Una relazione peraltro complicata dalla personalità ingombrante dei due protagonisti, che per orgoglio e per troppo amore sono riusciti a essere diretti solo quando il vissuto comune aveva smesso ormai di fare male. E sembra pensarla così anche lo stesso Bollettieri che ripercorrendo i momenti concitati del post Roland Garros si lascia andare alla prima e unica autocritica del film. Dopo aver insegnato per quasi un quarantennio ai suoi atleti a non farsi oscurare dalla testa mentre colpivano la palla e avere di fatto seguito a sua volta lo stesso comandamento nella sua vita personale e professionale, il coach più celebre della storia del tennis, si ferma, guarda in macchina, abbandona la voce impostata che il regista gli aveva pregato di non utilizzare già nella prima inquadratura e ammette di aver sbagliato ad agire senza prima pensare. Come se sapesse di aver sparato sulla rete la prima di servizio e invocasse adesso quella seconda palla che la vita molto spesso non ti concede.
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