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Dossier Sicilia azzoppata e senza piano industriale

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Dossier | N. 51 articoliElezioni regionali siciliane 2017

Sicilia azzoppata e senza piano industriale

(Marka)
(Marka)

Se governaste una Regione precipitata, secondo l’analisi di fine febbraio della Commissione europea, al 237° posto (su 263) nell’indice della competitività regionale, tra un piano industriale di sviluppo economico e un piano di promesse sempreverdi, cosa scegliereste?

Per la Regione Sicilia il tempo per la risposta è scaduto da tempo immemore e neppure la campagna elettorale per il voto regionale del 5 novembre riesce a invertire la rotta. E così il siciliano, stanco delle promesse, torna a emigrare. Non solo verso il Nord Italia ma anche fuori dai confini nazionali. Il 6 ottobre il rapporto della Fondazione Migrantes ha cristallizzato i numeri: nel 2016 si sono iscritti nel registro degli italiani all’estero (Aire) 11.501 siciliani, con un incremento del 17,1% rispetto al 2015. Complessivamente i siciliani iscritti all’Aire sono 744.035, il valore assoluto più alto, seguito a distanza dalla Campania con 486.249 espatriati.

Investimenti esteri (pochi) su sanità
e idrocarburi

Gli investimenti esteri sono con il contagocce e perlopiù concentrati nel settore sanitario e degli idrocarburi.

Le imprese estere a partecipazione italiana in Sicilia sono appena 229, pari allo 0,2% del totale nazionale (un terzo si trova nella sola Lombardia), con 5.311 dipendenti e un fatturato globale di 975 milioni (fonte Rapporto Ice 2016/2017). Senza andare troppo lontano e nel restare al Sud, la Campania ne conta 489 con 21.724 addetti e ricavi globali per oltre 4,7 miliardi. La stessa fonte certifica che nel 2016 la Regione Sicilia non ha speso neppure un centesimo per il sostegno all’internazionalizzazione delle imprese e che le esportazioni 2016 hanno toccato quota 7 miliardi, pari all’1,7% del totale nazionale, facendo registrare la peggiore performance nel Sud, con un decremento rispetto al 2015 dell'17,3%.

In una regione che ha molto per attrarre investimenti italiani ed esteri ma proprio non ce la fa (sempre al netto della pervasività di Cosa nostra la cui sconfitta è la premessa, finora non mantenuta, della credibilità dello Stato e delle Istituzioni), manca un piano industriale di sviluppo economico organico e armonico che, grida Sicindustria, faccia perno su pochi ma significativi assi: turismo e beni culturali, agroalimentare, energia e infrastrutture.

«I ritardi e le inadempienze generano sfiducia, allontanano gli investitori, creano povertà - spiega il vicepresidente di Sicindustria, Gregory Bongiorno - e bloccano la crescita delle imprese. Non è un caso se tra il 2000 e il 2015 il valore di tutte le operazioni di private equity e private debt effettuate nel Mezzogiorno sia stato pari a quelle del solo Friuli-Venezia Giulia. Il contesto anti impresa che caratterizza la Sicilia produce anche questi risultati. Chi volete che la scelga per i propri investimenti quando per ottenere un’autorizzazione le aziende sono costrette a superare una corsa a ostacoli impiegando anni e questuando dietro la porta di questo o quel funzionario? La qualità amministrativa è una condizione primaria di competitività dei territori e una pubblica amministrazione efficiente ed efficace avrebbe il merito di rendere la Sicilia credibile e attrattiva. Registriamo con disagio la grave assenza di questi temi concreti e importanti per la crescita socio economica, nel dibattito in vista delle elezioni regionali».

Senza piano industriale

In Sicilia l’idea di sviluppo collegata a un piano industriale non esiste come non esiste un report ufficiale con dati sintetici su progetti pianificati e poi realizzati, perché la massa critica dello sviluppo è il risultato (spesso casuale) dell’applicazione di opportunità come incentivi, aiuti, accordi su più percorsi individuati e disegnati appositamente dai rappresentanti delle istituzioni pubbliche in collaborazione con il partenariato socio-economico tramite il quadro delle politiche di coesione. In Sicilia finanziariamente parlando, quasi nulla, fatto salvo le spese aggiuntive europee, è dedicato al piano industriale.

Così come, del resto, manca un cruscotto normativo che includa la predisposizione dei piani di sviluppo triennali o biennali a valere sui fondi regionali o nazionali. Ciò implica il fatto che l’unico momento in cui si programmano interventi è con la programmazione comunitaria, rischiando perlopiù l’autistica frantumazione regionale dell’uso delle risorse.

Appesi a una speranza

Perduta l’occasione di avere un modello più integrato si è proceduto a sostenere le fasi di certificazione della spesa riprogrammata (2007/13) nei Pac (Piani di azione e coesione) e nei Patti per lo sviluppo e dall’altra parte a ridisegnare lo scenario industriale dentro un altro documento di programmazione e di sviluppo della ricerca e innovazione e specializzazione intelligente per la nuova programmazione (da poco attivata).

«Il documento sulla specializzazione – dichiara Rosario Amarù, vicepresidente di Sicindustria – rappresenta un vero e proprio piano di sviluppo dell’innovazione nel campo industriale e non solo. Ha sorretto tutto l’impianto della nuova programmazione e per la prima volta sono state individuate le priorità di sviluppo dell’isola tra cui turismo-cultura collegandoli con lo sviluppo delle attività produttive. La S3, così si chiama, è allineata alla strategia di specializzazione intelligente nazionale quindi anche in questo caso per la prima volta c’è stato un ponte con la governance nazionale e con le politiche di sviluppo nazionali. Adesso bisognerà vedere fino a che punto la Sicilia sarà in grado di rispettare le priorità inserite e il collegamento con i bandi e gli strumenti finanziari per sostenerla».

In un mondo così piccolo come quello siciliano, chiamato a competere con il Nord del mondo, i contratti di rete potranno rivelarsi strategici. «Penso che nel tessuto economico siciliano, caratterizzato da una miriade di imprese spesso anche efficienti ma troppo piccole per competere da sole su mercati aperti nei quali innovazione e competizione camminano di pari passo – spiega l’economista siciliano Nicola Piazza – possa trovare forte giovamento dal tipo di aggregazione consentita dal contratto di rete che consente a più imprese di collaborare fra loro in alcuni settori delle rispettive attività da individuare volta per volta mantenendo per il resto la propria autonomia e le proprie capacità competitive ed è per l’appunto questo possibile giusto equilibrio fra aggregazione e competizione che rende questo contratto, se ben congegnato e poi se ben gestito, capace, quando occorre, di far diventare grandi delle imprese che da sole tali non siano. L’occasione è propizia anche perché la presidenza nazionale di RetImpresa di Confindustria è in capo ad Antonello Montante, ex presidente di Sicindustria».

Un banco di prova: l’arte

Si possono fare mille esempi dei banchi di prova che attendono il futuro Governatore. Prendiamone uno, forse il più importante perché, sottolinea Sicindustria, è l’emblema della ricchezza buttata alle ortiche: lo stato dell’arte dei beni culturali. Trentasette tra musei e gallerie, 73 aree archeologiche e 20 siti monumentali (castelli, chiese, abbazie). In tutto 130 beni regionali di cui solo tre si autosostengono con i ricavi dei biglietti: le aree archeologiche di Giardini Naxos, Valle dei Templi e Selinunte. Dodici su 130 sono permanentemente chiusi mentre 36 serrano i battenti la domenica. Quanto agli introiti, c’è poco da commentare: 54 sono gratis, 32 hanno un biglietto sotto i 4 euro (meno di un pacchetto di sigarette) e per quattro la tariffa massima è 10 euro. Tanto per fornire un termine di paragone auto esplicativo, per entrare agli Uffizi di Firenze si pagano 21 euro e per i Musei Vaticani e la Cappella Sistina ne occorrono 28. Serve altro? Sì, serve altro per spiegare la débâcle del “petrolio culturale” che potrebbe essere un motore del turismo isolano ma non è: a fronte dei 2,9 milioni di paganti, 1,5 milioni sono entrati gratuitamente e l’incasso complessivo nel 2016 è stati di 23,2 milioni (pur sempre +13,52% sul 2015). La Campania, tanto per fare un esempio di una regione che pure per ogni pagante ne ha addirittura uno che entra gratis, nel 2016 ha incassato 41,7 milioni.

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