La legge di bilancio si avvia al traguardo del Senato (domani si voterà la fiducia) con un bottino scarno per il primo esame parlamentare, senza segnali di rafforzamento delle misure per la crescita. Il periodo elettorale, la scarsità di risorse e l’esigua maggioranza a Palazzo Madama possono far pensare che sia meglio così, con poche votazioni, poche modifiche rilevanti (o lasciate a metà in attesa di un secondo round alla Camera, come nel caso delle pensioni e della web tax), con una navigazione senza incidenti gravi per il governo. Si fa però fatica a capire perché alcune riforme importanti – contenute nel Piano nazionale delle Riforme e nel Def – si sia deciso di lasciarle cadere quando erano vicine al punto di arrivo. Anzitutto, le norme sulla giustizia civile che avrebbero consentito un dimezzamento dei tempi per l’80% delle cause. La norma (a costo zero) era stata inserita tra gli emendamenti da votare e, sia pure dopo qualche tentennamento, aveva avuto il via libera del governo. Ma l’opposizione di Anm e avvocati – e le tensioni interne al Pd – hanno sbarrato la strada. Questo esito non può essere considerato a costo zero: le riforme si fanno per il Paese, non per questa o quella categoria, non per questa o quella corrente del Pd. E se non si fanno è il Paese a soffrirne. Rifiutarsi di dare risposte a cittadini e imprese su tempi (e costi) della giustizia civile è un errore grave.
Qualcosa di simile sta accadendo sulla riforma della Pa. Qui assistiamo a un ribaltamento dei tempi dell’azione riformatrice. La manovra destina al rinnovo dei contratti del pubblico impiego la fetta più consistente delle risorse (1,8 miliardi) mentre si facilitano e si accelerano le nuove assunzioni e (per circolare) le stabilizzazioni di precari (si vedano gli articoli di Gianni Trovati sul Sole 24 Ore di domenica scorsa). Intanto si rinvia a una «fase due», di là da venire, la ridefinizione del perimetro della Pa, la sua riorganizzazione interna, la definizione dei fabbisogni e la gestione degli esuberi delle partecipate pubbliche, che, come sanno soprattutto gli abitanti di molte grandi città, sono uno dei problemi italiani. Questa tempistica ribaltata - ora assunzioni e aumenti, poi una seria riorganizzazione e l’indicazione di cosa serve - non favorisce le riforme, le uccide.
Ma, soprattutto, il Paese ha bisogno di una politica per favorire il lavoro dei giovani e va dato atto a Padoan e Gentiloni che una prima misura - con la decontribuzione dei giovani neoassunti - c’è ed è stata difesa. È un primo passo importante, ma non basta e si deve continuare nella prossima legislatura. Non sarà il bonus bebè a invertire i dati della natalità che ancora una volta dicono chiaro che il Paese non ha futuro senza giovani (e ringraziamo gli immigrati). Serve fiducia, serve una politica forte, stabile e lunga per consentire ai giovani di accedere al mercato del lavoro. Le forze politiche non dovrebbero pensare ad altro, se hanno a cuore l’Italia. Con rigore, con serietà dovrebbero affrontare la campagna elettorale individuando i due o tre temi-chiave che davvero servono al futuro del Paese e collegare a questi temi le misure necessarie. Invece assistiamo già a una serie di indicazioni che rispondono alla logica di chi la spara più grossa per parlare alla pancia dell’elettorato, senza mai indicare il disegno, né farsi carico del costo o dire da dove prendere le risorse. Bisognerebbe stabilire un filo fra un fine di legislatura ordinato e capace di portare a casa ancora qualche riforma seria e una campagna elettorale responsabile che guardi meno alle fake news e più ai problemi veri del Paese.
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