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Il vino italiano negli Usa deve puntare sulle etichette Premium

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la ricerca nomisma

Il vino italiano negli Usa deve puntare sulle etichette Premium

Il vino italiano per recuperare la leadership di principale fornitore del mercato Usa (persa da qualche settimana a favore della Francia) deve puntare sui “fine wines” ovvero sulle etichette premium con un prezzo superiore ai 20 dollari a bottiglia. È quanto è emerso da una ricerca realizzata da Wine Monitor di Nomisma per conto dell’Istituto Grandi Marchi (il consorzio che mette insieme 19 tra i principali brand del vino italiano da Antinori ad Gaja, da Biondi Santi a Masi, da Tenuta San Guido a Tasca d'Almerita) e che è stata presentata questa mattina a Roma. Lo studio è stato condotto su un campione di 2.400 consumatori degli stati di New York, New Jersey, Florida e California ovvero 4 dei 5 stati Usa (il quinto è il Texas) nei quali si concentra ben il 44% dell’import statunitense di vino.

Un mercato in crescita e ancora inesplorato
Gli Stati Uniti, che già da qualche anno ricoprono la posizione di principale mercato di consumo di vino al mondo (in gran parte locale visto che le importazioni coprono appena un terzo dell’offerta), stanno registrando in questi anni una crescente spinta alla ricerca della qualità. «Negli Usa - ha spiegato il responsabile di Wine Monitor-Nomisma, Denis Pantini – negli ultimi dieci anni i consumi di vino sono aumentati del 28% mentre le importazioni del 33% arrivando a quota 32 milioni di ettolitri. E ora su quel mercato è in atto una fase di ‘premiumisation' ovvero una tendenza a ricercare vini di sempre maggiore qualità. D’altro canto il prezzo dei vini fermi importati dagli Usa è cresciuto in dieci anni del 10% passando da 5,32 a 5,82 euro al litro. In questo trend l’Italia può giocare un ruolo da protagonista considerato che gode di una reputazione molto elevata tra i consumatori Usa che sono guidati nell’acquisto di vini “fine” proprio da reputation del brand aziendale e dalla notorietà di specifici territori».

Cresce la domanda di qualità
I dati dell’indagine di Wine Monitor d’altro canto parlano chiaro: nel segmento off trade i vini con un prezzo fino a 14,99 dollari sono cresciuti di appena il 2,1% contro il +8,1% delle bottiglie con un prezzo tra i 15 e gli 19,99 dollari, il +7,6% della fascia 20-24,99 dollari, il +5,4% di quella 25-30,99 dollari e infine il +9% dei vini con un prezzo superiore ai 31 dollari. «L’Italia esporta negli Stati Uniti soprattutto vini bianchi che sono il 59% del totale – aggiunge Pantini -. Con ben il 41% di questa categoria che si colloca nella fascia di prezzo tre i 20 e i 25 dollari. Dal canto suo la Francia esporta per il 41% vini rossi per il 22% bianchi e per il 37% vini rosè. Segmento nel quale ricopre una posizione di quasi monopolio».

Il vino deve accettare fino in fondo la sfida del valore
«In questi anni di crisi – ha aggiunto il presidente dell'Istituto Grandi Marchi, Piero Mastroberardino – abbiamo vissuto una generale una spinta a produrre a costi decrescenti. Questo discorso non può valere per il vino, la cui produzione innanzitutto non può essere delocalizzata. A nostro avviso quindi la ricerca dell’efficienza deve passare dallo sviluppo dei valori che a sua volta è strettamente legato alla valorizzazione della reputazione sia dei brand aziendali che del vino made in Italy nel suo complesso. A questo proposito il mercato Usa rappresenta il principale target per i nostri prodotti. Perché contiene ancora ampie zone nei quali i consumi di vino ancora devono essere sviluppati e perché presenta una classe di acquirenti, tra millennials e generazione X, che sono alla continua ricerca di specialities e in genere di una maggiore qualità dei prodotti».

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