«Che ci siano cinismo e rabbia è evidente: lo vediamo dal successo dei movimenti populisti, non c’era bisogno che ce lo dicesse il Censis. C’è una disaffezione diffusa, un atteggiamento di vendetta e di acrimonia più che di proposizione». La sociologa Chiara Saraceno, tra le voci più illustri e autorevoli della sociologia italiana ed europea, commenta con amarezza i dati del Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. E non ha esitazioni nell’indicare il colpevole: la politica. Quella che cavalca il rancore senza avere un orizzonte e quella che ha tradito l’ascolto e le aspettative della parte sana e propositiva della comunità.
Un’Italia bloccata e rancorosa. Da dove è nata?
Non è che negli ultimi anni i baricentri decisionali e di potere abbiano dato grandi iniezioni di fiducia.
È per questo che l’84% degli italiani non si fida dei partiti e il 78% del governo? Sono percentuali clamorose...
È una crisi della politica che si rovescia nel voto ai populisti, che è più “contro” che “pro”. Il permanente successo dei Cinque Stelle, nonostante per ora non abbiano dato una grandissima prova di sé, è più la manifestazione di un “contro”: «Tutto purché non questi che ci hanno traditi».
In che cosa è consistito il tradimento?
Anche le cose buone che sono state fatte sono state fatte senza cura per l’aumento delle disuguaglianze. Il divario tra chi guadagna tanto e chi guadagna poco o niente si è ampliato con scarsissima attenzione: la risposta è stata distribuire qualche bonus qua e là. Adesso c’è il Rei, il reddito di inclusione, ma non c’è confronto tra l’aver tolto l’Imu e i 480 euro per una famiglia di cinque persone. E poi riconosciuti tardivamente, con fatica. Si pensi alla velocità con cui sono stati approvati gli 80 euro e a quanto ci è voluto per il Rei. C’è una mescolanza di rancori anche di gruppo, che si sommano e possono entrare in conflitto gli uni con gli altri.
Giovani contro anziani e viceversa?
Io non condivido la tesi che ci sia un conflitto generazionale. Magari ci fosse, mi verrebbe da dire, perché si comincerebbe a discutere in modo sensato di interessi contrastanti. Il problema è che molti giovani riescono ad andare avanti perché hanno i genitori o i nonni che li aiutano. Il conflitto è composto nella famiglia. Mi sono sempre stupita, dai tempi della riforma Dini, della difficoltà con cui le giovani generazioni accettavano il discorso che fosse a loro favore. Perché in realtà pensano alla pensione del loro papà e della loro mamma, che è quella che gli serve. I conflitti generazionali che pure esistono oggettivamente, perché la mia generazione assorbe moltissime risorse e perché c’è un grosso problema giovanile, sono largamente compensati dentro le famiglie. Un fenomeno che favorisce la riproduzione generazionale delle disuguaglianze.
Più paralizzati, più egoisti?
Non è del tutto vero che si bada soltanto al proprio benessere individuale e che viene meno la solidarietà. Non mi sembra. È una solidarietà che oggi si gioca tanto al di fuori della sfera pubblica formale: il volontariato, le iniziative civiche. Sono molto colpita da quante persone si danno da fare per organizzare dibattiti, formazione, iniziative di integrazione dei migranti. È che tutto questo fatica a diventare un’azione, a essere riconosciuto o a essere interpellato da chi poi deve prendere delle decisioni. In realtà è come se tutto venisse affidato alla solidarietà privata, non solo familiare. Si torna sempre là: alla mancanza della politica.
C’è anche un rancore delle donne?
Le donne sono strette tra la rassegnazione per cose che non cambiano mai e l’insofferenza. Che potrebbe persino essere costruttiva, potrebbe portare a cambiare le regole. Ma anche le disuguaglianze tra donne stanno aumentando: tra quelle che riescono a entrare nel mercato del lavoro e quelle che non ci riescono, tra le più istruite e le meno istruite, addirittura tra quelle senza figli e quelle con figli. La competizione è tale che rende difficile individuare obiettivi comuni. Non a caso, lo dico con una certa cautela, l’unico tema che unifica e che fa scendere in piazza non è l’assenza di servizi ma la lotta alla violenza, e neanche quello fino in fondo. Non è bello.
Il Censis rileva che a più della metà degli utenti Internet è capitato di dare credito a notizie false circolate in rete.Quest’Italia rancorosa è anche credulona?
In parte sì, perché qualsiasi notizia che conferma la mia rabbia diventa automaticamente credibile. Se io continuo ad agire soltanto sul rancore, è difficile che abbia la testa lucida per prendere le distanze, per valutare di volta in volta, per giudicare l’operato di un politico senza preconcetti. Invece no: se le mie reazioni sono mosse dal fatto che ho un nemico, è difficile che poi sia in grado di prendere le distanze dalle informazioni che ricevo e di valutarle criticamente. Poi Internet è anche autoconfermativa, proponendo le notizie “su misura” per ciascuno di noi. Se non si cercano attivamente informazioni che non corrispondono al proprio profilo non si troverà mai disconferma delle proprie credenze.
Come se ne esce?
Senza incorrere nel mito che i cittadini sono migliori dei politici, che non è vero, io credo che ci sia ancora in questo Paese una ricchezza di persone che hanno voglia di fare, di mettersi in gioco: non solo rancorosi, ma costruttivi. È che anche loro sono sfiduciati perché non trovano interlocutori. La politica dovrebbe cominciare a interloquire un po’ di più, ad ascoltare. Invece non lo sta facendo per rincorrere i diversi rancori. È una competizione al ribasso. Ci si schiaffeggia in pubblico, basta avere qualche follower su Instagram per diventare padri della Patria o persone che possono parlare di tutto. Il sistema è autoreferenziale in modo disperante: una ripetizione continua senza dialogo con quel che avviene fuori. Allora altro che sfiducia.
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