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Città nemiche della salute, il G7 lancia l'Health city manager

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Città nemiche della salute, il G7 lancia l'Health city manager

Un Health city manager che coordini le politiche per la salute nelle città, in grado di guidare il processo di miglioramento e le misure di prevenzione, in sinergia con le amministrazioni locali e sanitarie; più attività fisica e sport per adulti e bambini con percorsi ciclo-pedonali per attività di running e walking e spazi verdi pubblici attrezzati come “palestre a cielo aperto”. E in generale il diritto per ogni cittadino a una vita sana e integrata, rafforzando educazione e informazione sanitaria, soprattutto nelle scuole. E premiando le imprese che fanno della responsabilità sociale il proprio mantra, con incentivi mirati. Sono queste alcune delle 15 priorità dell’«Urban health Rome declaration», siglata oggi dalla ministra della salute Beatrice Lorenzin e dal sindaco Antonio Decaro, presidente dell'Anci, nel corso del side event del G7 Salute a presidenza italiana

«Health in cities» oggi a Roma
Il ruolo delle città nella promozione della salute nei prossimi decenni sarà sempre più strategico, con il 70% della popolazione globale concentrata nelle aree urbane. «Le città devono quindi farsi promotrici in prima linea - spiega Lorenzin nel suo intervento di apertura - di una strategia integrata, attraverso un approccio multilivello che comprenda iniziative di vario genere, sociali prima ancora che sanitarie, come interventi urbanistici e “laboratori” sugli stili di vita sani. Bisogna capire che ambiente e salute sono la stessa cosa. Il cambiamento deve essere innanzitutto culturale. Non si può continuare a rimproverare i bambini che giocano a pallone in cortile perché fanno troppo rumore. Le città devono essere luoghi viventi. Dobbiamo monitorare l’inquinamento e abbatterlo. Garantire la vivibilità dei parchi urbani. Trasformare le nostre città e farle diventare sostenibili, accompagnando i cambiamenti demografici e promuovendo l’invecchiamento attivo. Importante la figura dell’Health city manager, che dovrà coordinare e raccordare tutte le politiche finalizzandole alla creazione di città più salutari»

Stop all’urban diabet
Il lavoro da fare non è poco. Nelle città italiane infatti per ora si assiste a un peggioramento degli stili di vita, a parte qualche best practice. I fattori di rischio non sono ancora affrontati con le giuste strategie. I lavori sono più sedentari, l’attività fisica diminuisce, l’alimentazione è spesso scorretta, con spuntini di scarsa qualità consumati in fretta. Tutti fattori sociali e culturali che rappresentano un potente volano per l’obesità e quindi per le malattie cardiovascolari e naturalmente il diabete, una delle più rilevanti e costose malattie sociali della nostra epoca. Un terzo dei malati di diabete nel mondo risiede nelle città e anche in Italia l’urban diabetes è un problema emergente di sanità pubblica, visto che nelle 14 città metropolitane risiede il 36% della popolazione del Paese e circa 1,2 milioni di persone con diabete.

Rischio infezioni in aumento
Aumenta il rischio per le patologie infettive (da sovraffollamento e condizioni igieniche non adeguate) soprattutto per gli abitanti delle baraccopoli e per l’età infantile. L’innalzamento delle temperature e l’aumento d’intensità delle precipitazioni stanno determinando la diffusione di insetti vettori a nuove latitudini. E Chikungunya, Dengue e Zika - le principali infezioni trasmesse dalle zanzare Aedes - si affacciano da tempo anche in Italia (quest'anno si è verificata una nuova epidemia autoctona di Chikungunya che ha interessato le Regioni Lazio e Calabria, con oltre 240 casi confermati) con la necessità di rafforzare sorveglianza epidemiologica sui focolai e interventi preventivi.

Il fattore inquinamento
Cresce l’esposizione all’inquinamento ambientale. E l’Oms ha recentemente lanciato un’allerta sulla scarsa qualità dell’aria: il 92% della popolazione mondiale è esposta ad aria i cui livelli di inquinamento superano i limiti fissati dall'Oms stessa, ogni anno muoiono più di 3 milioni di persone per l'esposizione ad aria inquinata e solo il 12% della popolazione urbana risiede in città che rispettano i limiti Oms. Le alte concentrazioni di particolato fine e ultrafine sono inoltre associate con un alto numero di morti per infarto e disturbi cardiaci, disturbi respiratori e cancro. A questi fattori vanno poi sommati gli incidenti stradali, i danni psicologici legati allo stress e all'isolamento sociale e il rischio di essere coinvolti in atti di violenza.

La best practice di Trieste
L’antidoto è quello di una strategia integrata che trasformi dalle fondamenta il contesto urbano. Puntando su modelli di “welfare generativo di comunità” per promuovere servizi ma anche la presenza di relazioni e forme di cooperazione attiva tra i cittadini . Tra le esperienze positive di sanità pubblica locale citate dal ministero della Salute, che potrebbero diventare un modello trasferibile, quella delle «microaree» di Trieste, che interessa a oggi 13 piccole frazioni di dimensione compresa tra i 500 e i 2500 abitanti. Un modello basato sulla creazione di una rete di operatori sanitari presenti in modo continuo nei caseggiati popolari con maggiori problemi di reddito e integrazione sociale. Un intervento mirato a garantire aiuti diretti in ambito sanitario, ma anche a sviluppare relazioni di aiuto tra i cittadini e una sinergia tra i servizi. «È stato coinvolto oltre il 5% della popolazione - spiega una nota della Salute - che risiede nelle aree più vulnerabili dal punto di vista sanitario e sociale, per la maggior densità di anziani e soggetti deprivati. Alcuni punti di forza dell’esperienza sono stati: la continuità nel tempo (oltre 10 anni); la convergenza e la cooperazione istituzionale intersettoriale (Asl, Comune, Ente case popolari, associazionismo); la centralità dell'azione delle strutture sanitarie nel coordinamento degli interventi di costruzione di reti sociali e istituzionali per la salute; gli importanti risultati sulla salute delle persone e sull’appropriatezza delle cure». Un'ulteriore esperienza è quella condotta nella Valle Maira in Piemonte, che ha applicato a un ambito territoriale di tipo rurale e montano gli stessi principi di cooperazione istituzionale e centralità del coordinamento sanitario utilizzati a Trieste. Il modello ha dimostrato un elevato potenziale nella creazione di reti di relazione, anche in territori spopolati.

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