Allarme subito rientrato. Ma guai a non cogliere il triplo messaggio che ci regala l'ultima e fortunatamente brevissima crisi degli approvvigionamenti di gas. Messaggio numero uno: il gas è, rimane, e rimarrà ancora per lunghi anni, la fonte primaria per soddisfare il nostro fabbisogno energetico. Ce lo dice perfino l'ennesima edizione della Strategia energetica nazionale (Sen) varata dal governo appena un mese fa: il metano sarà il bene energetico di transizione verso le rinnovabili. Per lunghi anni, appunto. Perché se è vero che le energie verdi (solare, eolico, geotermico eccetera) proseguono nel loro rapido sviluppo è anche vero che il cambio di testimone nell'egemonia delle fonti è appunto una questione di molti anni se non di decenni. Ed è anche vero che l'obiettivo a brevissimo (2025) di cancellare il carbone dalla generazione elettrica italiana affida una missione di sostituzione proprio al gas metano. Che in attesa della vera svolta verde potrebbe tornare anche per questa ragione ai livelli di consumo pre-crisi, recuperando quei 10 miliardi di metri cubi l'anno persi rispetto ai picchi storici di 80 miliardi di metri cubi annui.
Forti per finta
Messaggio numero due: se è vero, come si sono affrettati a sottolineare anche ieri i vertici dell'Eni e della Snam, che l'Italia e dotata di un non disprezzabile apparato di interconnessione metanifera con l'estero nonché di un robusto stoccaggio nazionale, è ancor più vero che tutto ciò serve ad arginare, se non a coprire, una debolezza strutturale: siamo il paese d'Europa che più dipende dall'import di idrocarburi. Non perché non abbiamo petrolio e gas nostrani ma perché non riusciamo a sfruttare con sano equilibrio i nostri giacimenti, a causa del noto incrocio di veti politici e sociali (gli stessi che peraltro ostacolano la costruzione di nuovi gasdotti, nuove e più moderne centrali elettriche e perfino molti impianti eolici e persino solari).
Problema nel problema: il grosso del nostro import di gas metano arriva da due direttrici: la Russia attraverso l'Austria, con il gasdotto che ieri ci ha fatto di nuovo tremare, e l'Algeria attraverso il tubo che transita per la Tunisia approdando in Sicilia. Con un contributo dalla Libia che non è un granché (si potrebbe dire fortunatamente, vista l'inaffidabilità di quegli interlocutori): vale meno di un quinto di quel che ci manda la Russia, meno di un terzo di quel che ci arriva dall'Algeria. Ci sono poi i sempre più asfittici flussi dal Nord Europa anche attraverso la Svizzera. E ci sono i tre rigassificatori di Panigaglia, Rovigo e Livorno, che insieme valgono teoricamente il 20% della nostra capacità di approvvigionamento ma funzionano a rilento accelerando il passo solo quando serve.
Lo scenario inganna
Ecco, proprio l'attività dei rigassificatori è emblematica di un'apparente contraddizione strutturale. Sembriamo in sovracapacità. Dal punto di vista numerico lo siamo, in situazioni ”normali”, quando tutto fila liscio. Ma ecco, neppure tanto nascoste, le storture dello scenario. Poche direttrici di importazione egemoni ci espongono, in caso di falle in una di queste, ad improvvisi e giustificati tremori come quello di ieri. Le alternative di import ci sono, ma solo in parte e solo a breve. Gli stoccaggi nazionali sono apparentemente robusti: 12 miliardi di metri cubi più 5 di riserve strategiche. In grado da soli di mandare avanti il paese, in teoria (perché bruciare tutti gli stoccaggi ci metterebbe decisamente a terra) per un paio di mesi anche in inverno. Se non fosse che una significativa anche se temporanea crisi dell'import avrebbe motivazioni che inevitabilmente coinvolgerebbero tutto il sistema metanifero europeo, denso di debolezze che in molti casi non sono minori delle nostre.
La carta da giocare
Ed ecco il messaggio numero tre. Perché allora non rivitalizzare un progetto ambizioso ma realistico, messo in campo qualche anno fa quando sembravano esserci dei migliori condizioni e poi assopito dalla crisi che ha depresso i consumi anche di metano? Parliamo dell'Italia hub continentale del gas, pronta a incrementare le sue infrastrutture ben oltre le sue esigenze interne. Perché si tratterebbe non di infrastrutture di sola importazione bensì di interconnessioni votate anche (e soprattutto) al transito. Se guardiamo bene alle nuove rotte metanifere che si vanno formando nello scacchiere planetario il progetto rimane attualissimo. Potrebbe dare preziosa dignità aggiuntiva non solo al costituendo (con gli sconcertanti ostruzionismi agli onori delle cronache quotidiane) gasdotto Tap, destinato a captare attraverso la Puglia il nuovo gas dell'Azerbaigian. Potrebbe rivitalizzare anche un progetto messo in freezer nonostante fosse buon punto: il raddoppio della capacità di import dal Nord Africa con il gasdotto Galsi che tra l'altro attraverserebbe la Sardegna metanizzando un territorio ancora privo di approvvigionamenti diretti. Potrebbe perfino aprire la strada alla costruzione di altri due o tre grandi rigassificatori di quel gas liquefatto trasportato via nave che si sta facendo rapidamente largo, con lucrosi affari, nei giochi e nelle contrattazioni energetiche di tutto il pianeta.
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