Il nuovo contratto degli statali avvia oggi quella che dovrebbe essere la stretta finale delle trattative, ed è destinato a tradursi in circa 50 euro netti al mese di aumenti. La prospettiva è quella di un ritocco in busta paga sostanzialmente uguale per tutti, perché i tempi sono stretti e la pressione per recuperare almeno in parte gli otto anni di congelamento delle buste paga sono forti.
In pratica, gli 85 euro medi promessi dall’intesa del 30 novembre scorso e finanziati dalla legge di bilancio attesa in settimana all’approvazione definitiva dovrebbero distribuirsi in parti uguali fra le buste paga di tutti i dipendenti. E questa linea, una volta fissata dal contratto per le «funzioni centrali» (i circa 240mila dipendenti che lavorano in ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici), sarà ripetuta in tutti gli altri rami della Pa, dagli enti territoriali alla sanità fino alla scuola.
Per un ministeriale medio, che oggi secondo i calcoli dell’Aran guadagna poco più di 28.500 euro lordi all’anno, gli 85 euro lordi si traducono in 50 euro al mese al netto di Irpef e addizionali, e analogo è l’effetto sullo stipendio-tipo del dipendente degli enti pubblici (quasi 41mila euro lordi oggi).
A portare verso questa omogeneità di trattamento sono due fattori. Il governo ha manifestato in più di un’occasione l’idea di destinare al “tabellare”, cioè alle voci fisse uguali per tutti, solo una parte degli aumenti, ma l’intenzione si scontra con le richieste sindacali alimentate dal fatto che il contratto in cantiere riguarda un triennio (2016-2018) per due terzi già trascorso.
Governo e sindacati, poi, sono accomunati dalla fretta di chiudere il prima possibile la trattativa, per portare gli aumenti in busta paga in tempo utile per le elezioni e per il rinnovo delle Rsu negli uffici pubblici. L’obiettivo è ambizioso con l’ipotesi di urne il 4 marzo, perché dopo l’accordo il testo deve passare da Corte dei conti e Ragioneria generale per ottenere tutti i bolli necessari alla firma finale, e pare più alla portata del voto sulle rappresentanze sindacali, soprattutto se si terrà dopo Pasqua. In ogni caso bisogna fare in fretta, perché l’accordo sulle funzioni centrali aprirebbe la strada agli altri contratti, che riguardano quasi 3 milioni di persone.
L’idea alla base della «piramide rovesciata» ipotizzata a suo tempo da Funzione pubblica, cioè di un occhio di riguardo per gli stipendi più bassi e di un trattamento meno generoso con quelli più alti, dovrebbe quindi manifestarsi solo per il primo aspetto. Per attuarlo è stato abbozzato quello che il nuovo testo di contratto definisce «elemento perequativo» (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), che in pratica serve a garantire il mantenimento degli 80 euro a chi li riceve oggi. L’aumento contrattuale, infatti, avrebbe tagliato o azzerato il bonus a circa 300mila persone che oggi guadagnano fra 24-26mila euro lordi, in uno scambio fra 85 euro lordi in entrata e 40-80 netti in uscita (a seconda del livello di partenza) che avrebbe finito per rendere netto o addirittura in perdita l’effetto del rinnovo contrattuale. La prima mossa per evitare il problema è stata fatta in manovra ed ha alzato da 24mila a 24.600 euro la soglia di reddito che inizia a far scendere il bonus, e da 26mila a 26.600 quella che lo cancella. Ma come previsto, la novità non è sufficiente a garantire tutti, e il compito di finire il lavoro sarà assegnato appunto alla salvaguardia aggiuntiva scritta nelle bozze di contratto. Il suo non sarà in ogni caso un lavoro semplice, perché per riuscire dovrà incrociare tutte le variabili senza comunque poter agire sui redditi diversi da quelli da lavoro, che entrano nel calcolo alla base della distribuzione del bonus.
L’altro compito chiave, quello di differenziare le buste paga, toccherà invece al nuovo sistema dei premi, e in particolare alla regola contrattuale che chiederà di riservare le maggiorazioni individuali al 30% del personale e di azzerarle quando le valutazioni migliori riguarderanno più di 4 dipendenti su dieci. Ennesima variazione sul tema eterno della «meritocrazia», i cui effetti andranno testati sul campo.
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