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Stretta sugli incentivi ai manager

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Stretta sugli incentivi ai manager

  • –Cristina Casadei

Non c’è notizia, almeno per ora, almeno in Italia, di manager che dopo aver indicato previsioni errate delle performances aziendali nei loro piani sono stati costretti a restituire i loro bonus per via della clausola di clawback. La sua presenza, che aleggia ormai nel 70% delle società quotate, è però sicuramente uno stimolo a fare bene o meglio. E soprattutto a badare alla sostenibilità dei risultati, non tanto nei due anni o poco più di permanenza di un manager in una società, ma nel lungo termine. E che la governance sostenibile delle società sia un tema, lo dimostra anche quel Cap, ossia il tetto massimo agli incentivi di risultato, che ormai è presente nella quasi totalità delle quotate.

Qualità, risultati ma anche loro sostenibilità nel tempo, dunque. Nelle società quotate italiane l’astratto terzetto - con le debite eccezioni che non mancano mai - è stato eletto come guida nella definizione del pacchetto remunerativo dei top manager che, a più livelli, incrocia la corporate governance. OD&M consulting (Gi group) ha preso in esame i bilanci, le relazioni sulla remunerazione e le relazioni sulla corporate governance relative al 2016 di 230 società quotate della Borsa italiana, escludendo quelle che sono in procedura fallimentare e quelle quotate all’estero.

Le 2.410 schede che sono state elaborate, ognuna delle quali rappresenta un manager, restituiscono un quadro che racconta le “curve” retributive per 17 posizioni di vertice aziendale. L’amministratore delegato aumenta il suo pacchetto, seppur di poco, il direttore generale è la figura più penalizzata ed il suo ruolo è sempre più accorpato a quello dell’ad, mentre chi vede un ritocco all’insù sono i dirigenti con responsabilità strategica come per esempio il chief financial officer, il responsabile delle operations o il responsabile commerciale (si veda l’altro pezzo in pagina).

A riprova del fatto che la sostenibilità dei risultati è una priorità, più che uno degli elementi che si prendono in considerazione, ci sono due parole ormai di rito nel compensation dei manager: cap e clawback. La quasi totalità delle aziende prevede dei cap, ossia dei tetti, ai valori massimi di incentivi erogabili, in modo tale che «vi sia una equa distribuzione tra ricchezza prodotta dall’azienda e redistribuzione ai manager», dice Gabriella Giovanazzi, senior consultant di OD&M. Meccanismi di clawback sono invece presenti nel 70% delle aziende sia per piani di breve termine che di lungo termine, anche per effetto «di un progressivo adeguamento alle raccomandazioni degli enti regolatori», osserva Giovanazzi.

Prendendo i piani di incentivazione di breve e medio/lungo termine, dall’analisi delle oltre 2.400 schede, emerge che nel 2017 i piani sono sempre più legati a obiettivi di performance e che il 90% delle aziende dichiara di adottare condizioni di accesso, come obiettivi cancello o livelli minimi di performance. «Sia nei piani di breve che di lungo periodo gli obiettivi di performance più utilizzati per le figure di vertice sono quelli economici e reddituali - spiega Giovanazzi - tipicamente l’Ebit e l’Ebitda che fungono spesso da soglia, seguiti da indicatori finanziari patrimoniali, tra cui quello più utilizzato è la posizione finanziaria netta».

In forte crescita sono i piani di lungo termine per tutte le figure esecutive di vertice: nel 2014 riguardavano il 54,1% dei manager, nel 2017 il 67% e l’uso dei piani misti (cash and equity based) è quasi raddoppiato.

«Il compensation - interpreta Giovanazzi - si compone di una parte che è frutto delle politiche retributive che la società dice di voler adottare per i manager e di una parte che è l’entità della remunerazione e cioè quanto viene effettivamente erogato. A questo proposito si vede chiaramente che la componente fissa tende a comprimersi, mentre quella variabile sia di breve che di medio periodo tende ad aumentare».

Se nel 2007, in Italia, il rapporto fisso-variabile era 70-30, oggi si sta avvicinando al 60-40 con l’obiettivo di arrivare, seppur gradualmente, visto che il nostro è un paese dove le politiche remunerative sono sempre state molto garantiste per i manager, al 50-50. «L’elemento di discontinuità che c’è rispetto al passato è sicuramente il rigore – sostiene Giovanazzi -. C’è sempre più rigore nelle politiche di remunerazione che le aziende adottano per il vertice e segnali chiari arrivano dalla valorizzazione della parte variabile così come dallo spostamento progressivo verso l’incentivazione di lungo periodo». Risultati sì, ma a patto che siano sostenibili nel tempo.

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