Se c’è un punto nel programma del Pd su cui – più di altri - si è voluto dare un segnale di discontinuità, questo forse è il lavoro e in particolare il Jobs act. Non che ci sia un’inversione di rotta o un ripensamento ma una correzione c’è. Ed è per una ragione molto chiara, che quella riforma è stata usata in questi mesi come il principale argomento per raccontare il Pd come un partito che con la sinistra non ha nulla a che fare, la prova provata che si è trasformato in una forza moderata, se non di destra. Si può dire che è una delle tante critiche fatte al Governo Renzi ma in realtà è quella che più lo danneggia per il semplice fatto che l’occupazione è uno dei temi principali della campagna elettorale, una delle scelte su cui più si orientano gli elettori oltre al fisco. E l’immagine del Jobs act in questi mesi ha coinciso con l’idea di precarietà, come se fosse stata quella legge ad averla inventata e diffusa, fino ad arrivare al caso dei braccialetti della Amazon imputati – anche quelli – di essere frutto di quelle norme.
Un caso che sta infiammando la campagna elettorale di questi giorni esattamente con l’equazione che quella riforma è un arretramento su tutti i fronti, dall’occupazione che diventa sempre meno stabile alla perdita progressiva di diritti. Non è un caso che il primo ad intervenire sia stato Paolo Gentiloni, gelando l’iniziativa di Amazon. Così come ieri è intervenuto il ministro Calenda bollando come «inaccettabile» il comportamento della multinazionale americana proprio al termine di un incontro al Mise con una delegazione aziendale in cui si è discusso di investimenti e di qualità del lavoro. Insomma, è servita la prima linea del Governo per cercare di fermare gli attacchi dei 5 Stelle e del partito di Grasso che accreditano l’idea di un Pd che ha spalancato le porte allo “sfruttamento”. Un messaggio che in campagna elettorale vale più di qualche punto nei consensi.
E dunque, anche prima della polemica su Amazon e a maggior ragione oggi, l’assoluta priorità per Renzi è cercare di cambiare la “narrazione” del Pd sul fronte del lavoro. Servivano quindi dei “ritocchi” alla legge per correggere un punto che è diventato il tallone d’Achille del segretario. Tant’è che ogni volta che lui ricorda - tra i risultati del suo Esecutivo - l’incremento dei posti di lavoro, contemporaneamente gli si mostrano i dati Istat che raccontano come la maggior parte dei flussi oggi sia fatto di contratti a tempo. Ed è qui che si è scelto di intervenire redistribuendo i pesi economici tra contratti stabili e quelli precari rendendo più onerosi quest’ultimi con la proposta di una liquidazione (vedi articolo in pagina). E rendendo gradualmente meno caro il posto fisso con un intervento sul cuneo fiscale.
In questa mossa c’è senz’altro una risposta all’offensiva da sinistra del partito di Bersani e soprattutto dei 5 Stelle che con il loro reddito di cittadinanza “scavalcano” il tema della disoccupazione. Ma si interviene anche su una sofferenza interna allo stesso Pd. Basta pensare che solo un mese fa c’è stato un tentativo del partito di intervenire per correggere alcune norme del Jobs act nella legge di bilancio, tentativo poi bloccato. Oggi si riparte da lì.
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