Bill Gates, Jeremy Corbyn, Matteo Salvini. Non sono troppe le affinità che si potrebbero scovare a prima vista tra il fondatore di Microsoft, il leader del partito laburista britannico e il segretario della Lega. A parte una: tutti e tre hanno proposto la tassazione dei robot, intesa come un prelievo sui macchinari da devolvere alle casse dello Stato. L'ultimo in ordine di tempo, Salvini, si è detto «assolutamente favorevole» ai microfoni di Radio24, spiegando che la «robotizzazione va benissimo» ma «va governata» per ridurne l'impatto sull’occupazione.
A seconda della statistica e del ruolo del dipendente, vari report hanno stimato un tasso di sostituzione (la capacità del robot di rimpiazzare l’umano) che va da meno di 10 al 100 per cento. L'argomento atterra così per la prima volta in campagna elettorale, dove l'idea di un intervento fiscale sull'automazione non era mai stato formalizzato in una dichiarazione. Salvini non è ancora sceso nei dettagli, ma in questo non si discosta particolarmente dai suoi predecessori.
Da Gates a Corbyn, corsa alla “robot tax”
In effetti neppure Gates e Corbyn hanno fornito una ricetta univoca su quanto e come tassare i robot, dettando più che altro delle linee di massima sui principi e
il reinvestimento del gettito. Gates ha ipotizzato di tassare il «reddito prodotto dai robot», attraverso un’imposta che si eserciterebbe su produttori e proprietari delle macchine. Il gettito generato andrebbe a finanziare il retraining, la riqualificazione della forza lavoro umana messa ai margini dall’automazione. L’assunto di Gates è che «se un lavoratore umano produce 50mila dollari con il suo lavoro, quei soldi vengono tassati - ha detto in un’intervista a Quartz - Se un robot fa lo stesso, ti aspetti che sia tassato in maniera uguale. No?». Secondo le analisi di alcuni economisti, la tassazione dei robot proposta da Gates va intesa più che altro come una tassa sui capitali investiti, con l’obiettivo di recuperare risorse per una formazione continuativa.
La tesi sposata da Gates assomiglia a quella annunciata, a settembre, da un interlocutore un po’ diverso: Jeremy Corbyn, il segretario del Labour Party britannico. Corbyn, in una conferenza del partito a settembre, ha annunciato che il ruolo della politica è di «riprendere il controllo» sulla tecnologia e soprattutto sulla robotica, il segmento più sensibile per impatto sociale. La via di massima sarebbe appunto una robot tax, un’imposta ad hoc, per evitare che i benefici dell’automazione si concentrino nella mani «di chi estrae ricchezza senza generare ricchezza». È il come che va ancora chiarito. Ad oggi non ci sono «risposte certe», vale a dire programmi, ma Corbyn ha assicurato che i labour sono inclini a «ripensare radicalmente» il problema. L’ipotesi di un’aliquota speciale per l’automazione è emersa più volte anche all’Europarlamento, senza trasformarsi comunque in una proposta di legge specifica.
Quale sarebbe la “base imponibile” della tassa
Con presupposti così vaghi, non è facile pronosticare i ritorni della tassa. Ma si può anticipare dove andrebbe a colpire: la filiera di robotica e automazione,
riconosciuta anche da Salvini come «eccellenza» italiana. Secondo dati Ucimu (Associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, robot e automazione), il valore di produzione del segmento è stato di 6,1 miliardi di euro nel 2017, con l’obiettivo di salire a 6,5 miliardi di euro nel 2018. Nella Penisola si contano 300mila macchine utensili installate in 8mila imprese, con una quota del 20% di robot “puri” (quindi circa 60mila unità).
Sarebbe qui che andrebbe a cadere l’imposta, anche se ci sono dubbi su realizzabilità e opportunità della misura. «Ma non ha senso tassare la tecnologia in sé. Piuttosto i profitti che genera, e questo succede già» sbotta Alfredo Mariotti, direttore generale dell’associazione.
Mariotti parla a nome dell’Ucimu, ma la proposta solleva perplessità anche al di fuori delle industrie di settore. Secondo Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia all’Università Bocconi, la tassa si rivelerebbe un «suicidio economico» per un’industria 4.0 che inizia a dare i suoi frutti. «È un non senso assoluto - dice Carnevale Maffè - Non si tassano i fattori produttivi, anche perché faremmo andare all’estero le imprese». E l’idea di reinvestire i profitti generati da robot in attività di formazione? «Si sbagliano i presupposti, perché sono i robot che permettono di riqualificarsi - dice - È una tesi che non regge né a livello teorico né a livello pratico».
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