Lo sfruttamento dell’Amazzonia. Un tema di grande rilevanza, dibattuto e controverso, capace di spostare consensi e condizionare scelte di politica economica, a volte più “verdi”, a volte più industriali. È il Brasile, un gigante con un’estensione pari a 27 volte quella dell’Italia, il Paese latinoamericano che possiede gran parte dell’Amazzonia.
Le posizioni sono varie e spesso inconciliabili: economisti, ambientalisti, politici, speculatori, trafficanti e faccendieri esprimono interessi spesso divergenti. Ma in quest’intreccio di contrapposizioni i primi a saltare sono i luoghi comuni. La resa della foresta è un prisma con riflessi inaspettati: uno studio pubblicato su Nature afferma che un ettaro di foresta amazzonica rende ogni anno 148 dollari se trasformato in terreno da allevamento, 1.000 dollari se impiegato per l’estrazione legname commerciale distruggendo tutti i tipi di arbusti e 6.820 dollari se la foresta viene rispettata, limitandosi a “mieterla”, per raccogliere frutta, lattice e legname.
Il concetto di foresta “coltivata” scompagina quindi le convinzioni più radicate, per esempio quelle di chi ritiene inevitabile lo sfruttamento della foresta in vari modi per consentire e accelerare lo sviluppo economico. Tra le cause principali del degrado della foresta sono il contrabbando di animali esotici e il taglio illegale del legname. Ma gli impatti più devastanti sono determinati dall’allevamento di bestiame e dall’agricoltura. Indirettamente, anche da un pesante incremento della popolazione nel territorio amazzonico brasiliano, che negli ultimi 50 anni si è decuplicata superando i 20 milioni di abitanti.
La politica agroalimentare è troppo aggressiva e sta trasformando l’Amazzonia in uno dei principali bacini di allevamento globali, nonché in uno dei più estesi terreni per la coltivazione della soia.
Un’indagine del Climate policy initiative (Cpi), un think tank specializzato su temi ambientali, fornisce anche un’ulteriore prospettiva: il 70% delle attività di deforestazione deriva da disboscamenti effettuati per la costruzione di piccole proprietà terriere. Un tipo di “sviluppo” non necessario dato che, per aumentare la produzione agricola, basterebbe migliorare la produttività delle terre.
Almir Narayamoga, capo della Tribù amazzonica Suruì, ma anche biologo e autore del libro “Salvare il pianeta”, partecipa a vari forum brasiliani spiegando che «la foresta deve essere usata, riflettendo però sugli effetti a medio e lungo termine di qualsiasi intervento».
Pochi mesi fa l’ultimo colpo di machete ai danni dell’Amazzonia. Il presidente del Brasile Michel Temer ha abolito la National Reserve of copper and associates: via libera alle trivellazioni in un grande territorio ricco di minerali e metalli preziosi, che si estende per quasi 50mila chilometri quadrati (quanto Lombardia e Piemonte insieme). L’idea di Temer è quella di attrarre investimenti e nuovi posti di lavoro.
Per gli ambientalisti del Wwf si tratta del più violento attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni. Devastazione ancora peggiore – secondo il senatore brasiliano d’opposizione Randolfe Rodrigues – di quella perpetrata dalla dittatura brasiliana, che decise di costruire l’autostrada transamazzonica. Una tesi vicina a quella di Manuel Rodriguez Becerra, ex ministro dell’Ambiente della Colombia (uno dei Paesi che condividono il patrimonio forestale dell’Amazzonia), secondo cui l’America Latina ripercorre la strada dell’estrazione mineraria su larga scala, sacrificando la biodiversità e i modelli di sviluppo “rigenerativi”.
Le risorse del polmone verde lambiscono anche ambiti inaspettati. Non lontano da Belo Horizonte c’è Inhotim, un centro per l’arte contemporanea che è anche parco botanico: un connubio tra arte e natura. Vi sono 800 opere e circa 5mila varietà di piante. È un percorso/esposizione che ha coinvolto artisti, architetti, paesaggisti, ricercatori, biologi. Un’esperienza che arriva dalla Land Art americana, i cui protagonisti si avventurano in località naturali nelle quali immergersi completamente. Un’immersione nella natura che consente anche un viaggio a ritroso fino all’origine dell’umanità, quando l’arte era graffiata sulle pareti delle caverne. Con una funzione rituale e mistica e, secondo i sociologi, “apotropaica”: mirata ad allontanare gli spiriti maligni.
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